LE OPINIONI

IL COMMENTO Burocrazia statale e degli enti locali: serve una svolta

C’è ormai una consapevolezza generalizzata che l’Italia abbia bisogno di una burocrazia nuova, ringiovanita, aggiornata e più conforme alla celerità decisionale delle imprese private. A evidenziare l’acutezza del problema è stata l’emergenza della pandemia e, ancor più, la preoccupazione di non essere in grado di elaborare progetti idonei per l’impiego delle risorse che arriveranno dal Recovery Fund. E’ di poche giorni fa un’intervista di Lilli Gruber al vice segretario PD, Orlando, nella quale l’esponente politico ha affermato che urge una struttura amministrativa diversa, per imprimere velocità ed efficienza alla progettazione ed esecuzione dei piani strategici e, per far ciò, suggerisce che la struttura di Stato intanto si faccia collaborare da dirigenti di imprese come ENI, ENEL,SNAM e che, in prospettiva, rinnovi gli organici, con meno avvocati e giuristi e più ingegneri, urbanisti, sociologi. Analogo discorso aveva fatto, nei giorni precedenti, un grande manager industriale come Franco Bernabé. A quanto pare, le linee direttrici del Recovery Plan sono sei e, oltre ad una struttura interministeriale e a un largo comitato di consulenza costituito da 300 esperti di vari settori, ci saranno sei manager a coordinare le suddette linee direttive. Ridondante, esagerato? Potrebbe non esserlo, a patto che si cancellino organismi già esistenti per scopi analoghi, come la Centrale unica di progettazione e Strategia Italia.

Rispetto al discorso di Bernabé ed Orlando, personalmente aggiungerei che il punto di partenza di qualunque riprogettazione di città, Comuni, periferie, deve essere la raccolta e l’elaborazione dei dati di stima. Statistica e Big Data, è questo che serve. Se n’è accorta una delle migliori università italiana, la Normale di Pisa che, tre anni fa, istituì un dottorato di ricerca in Data Science, multidisciplinare tra Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica, da cui – presto – usciranno esperti di “urban planning”. Questi nuovi Data Scientist analizzeranno i dati raccolti da gps e geolocalizzatori, oltre che da analisi socio-economiche. Come si può pensare un “piano mobilità di un’isola come Ischia, senza studiare le modalità e i tempi di spostamento degli individui? E al mio amico Peppino Mazzella, che sollecita gli intellettuali isolani a predisporre un Piano economico dell’isola, chiedo: come si fa, in totale assenza di dati di stima? Anni fa chiesi a un funzionario del Comune d’Ischia di farmi avere un quadro riassuntivo di distribuzione settoriale degli esercizi commerciali. Mi fu promesso, ma mai consegnato. Avrei voluto elaborare, per conto di OSIS (Osservatorio dei fenomeni socio-economici dell’isola d’Ischia) un possibile nuovo piano commerciale. Né mi andò meglio nell’incontro, accompagnato da Silvano Amalfitano, col Sindaco Enzo Ferrandino, quando gli illustrammo la proposta di un SIAD (Strumento di Intervento per l’Apparato Distributivo) che si poteva approntare e approvare con procedura accelerata, grazie ad un’apposita legge regionale. Ma giriamo pagina. Leggo da Il Corriere della Sera di sabato scorso, un editoriale a firma di Daniele Manca, dal titolo “Lo Stato va rimesso in moto”, nel quale si dice: “La scelta di capi di gabinetto e dirigenti nei Ministeri avviene per cooptazione politica e non certo seguendo la strada dei concorsi per merito, ormai diventati una rarità”. Avviene lo stesso – aggiungo io – nei Comuni, in cui si scelgono i Dirigenti di fiducia (che, volgarizzando, diventa “fedeltà”) e, per giunta, con incarichi a tempo determinato per tenerli continuamente sotto scacco, vedi recente allungamento di tre mesi, fino a marzo, al Comune d’Ischia. Bisogna cambiare i criteri di selezione dei dirigenti, che non devono basarsi solo su conoscenze teoriche di diritto amministrativo, diritto civile e contabilità di Stato. Bisogna accertarsi della capacità dei soggetti di relazionarsi alla comunità territoriale e di essere manager coraggiosi e decisionisti. Per fare ciò è necessario modificare i paradigmi su cui-tuttora- si fonda la Scuola Nazionale dell’Amministrazione, che ha sede anche a Caserta.

Di seguito, a supporto della tesi che intendo sostenere in questo articolo, cito due autori di calibro diverso, l’uno giornalista del Corriere della Sera, Gian Antonio Stella, l’altro studioso di fama internazionale, professore dell’Harward University. L’articolo di Stella, che prendo in considerazione, è recente, mentre il libro di Robert D. Putnam è del 1993 e ha per titolo “La tradizione civica nelle Regioni italiane”. Incominciamo dall’articolo di Stella, dal titolo “Una burocrazia solo difensiva”. In esso si sostiene che – soprattutto in questo periodo di grande difficoltà, creata dalla pandemia e nella circostanza di dover progettare il Recovery Plan, occorrerebbe una burocrazia degli enti locali e centrali molto efficiente. Ma ciò contrasta innanzi tutto col dato anagrafico sconcertante che i dipendenti pubblici, di età inferiore ai 30 anni, raggiungono – a mala pena – il 3%. Una burocrazia, dunque, vecchia e – tra l’altro – non aggiornata, non sufficientemente formata e non al passo con le novità. Ma, soprattutto, sostiene Stella, questa burocrazia è solo “difensiva” nel senso che si trincera dietro il rispetto dei protocolli, più che puntare al risultato. Succede così che ogni pratica deve superare una lunga catena di approvazioni prima di diventare esecutiva. C’è poi da considerare che, negli ultimi anni, si è mirato a “tagliare” il numero dei dipendenti pubblici, fino a relegare l’Italia al 12° posto, in Europa, nel rapporto impiegati per ogni mille abitanti. Occorre dunque, con urgenza un rinnovamento generazionale e un capovolgimento di logica (dalla mistica della “procedura” alla nuova filosofia del “risultato”) e occorre, infine, un riproporzionamento numerico degli organici.

Fin qui, sembrerebbe che ci sia un problema uniforme in tutte le articolazioni territoriali dell’Italia. Purtroppo non è così. Nella generale “necrosi” degli apparati burocratici italiani, si registra la solita divaricazione degli standard tra nord e sud. Non v’è dubbio che, nell’Italia meridionale la burocrazia è ancor più arrugginita che nel centro-nord. Qui subentra l’analisi di Putnam sui motivi storici che hanno – via via – scavato un solco tra burocrazia delle Regioni del sud e quelle del nord. Sarebbe impossibile riassumere quello che è il risultato di vent’anni di studio, alla base del libro, a partire dal 1970, con centinaia di progetti, diagrammi, indagini statistiche. Vado subito al sodo, alla conclusione del libro, citandone un passo dall’introduzione: “Il Sud è in ritardo non perché i suoi cittadini siano malvagi, ma perché essi sono intrappolati in una struttura sociale e in una cultura politica che rende difficile e addirittura irrazionale la cooperazione e la solidarietà” .Se la società che prendiamo in esame non ha tradizioni civiche – è la tesi del libro – per motivi storici, gli individui non si comporteranno con “ senso civico” E ciò dipende, secondo Putnam, dal fatto che dal medioevo in poi, l’Italia fu divisa in “staterelli”. Nell’undicesimo secolo, al Sud sulle fondamenta bizantine ed arabe, si creò il Regno dei Normanni; al nord invece, in assenza di imperi di marca straniera, ci fu un improvviso sviluppo di particolarismi locali. Si imposero i Comuni autonomi, tanto che si parlava di “Italia dei Comuni”. Il Sud, con i Normanni, con Ruggiero II e poi Federico II, conobbe un periodo aureo sotto il profilo della libertà religiosa, dello sviluppo culturale, letterario ed artistico e perfino nel campo dell’istruzione universitaria. Ma, per quanto riguardava le strutture socio-politiche, il Sud restava autocratico e basato su una struttura molto centralizzata e guardinga.

Questa è l’origine storica del divario che ha determinato, nei secoli successivi, al nord una “spina dorsale di enti locali autonomi e forti” rispetto a enti locali del Sud, che hanno sempre guardato in alto, più che in orizzontale. Occorre, dunque, una doppia svolta nel modo di concepire la burocrazia. Ringiovanirla, incrementarla in tutto il territorio nazionale, ma occorre altresì azzerare lo scarto che esiste tra apparato centro-settentrionale e apparato meridionale, Al Sud dobbiamo effettuare un’operazione di riscatto dei Comuni, rinnovare e formare i quadri dirigenziali ed impiegatizi , riappropriandoci di prerogative troppo frettolosamente delegate ad organi superiori (la Regione torni a fare il suo compito di ente legislatore e la smetta di propinarci padri-padroni deliranti) Per venire alla nostra isola, anziché dividerci tra quelli che amano De Luca e quelli che lo odiano, diamo una lezione di “senso civico” rafforzando la consistenza dei Comuni isolani (meglio se unificati, ma per lo meno “coordinati” tra di loro). E a noi cittadini resta il compito e il dovere di individuare una classe dirigente che voglia viaggiare su paradigmi diversi da quelli dell’autoalimentazione e perpetuazione della classe politica attraverso il clientelismo elettorale. Come può un Comune, come quello di Ischia, farsi scappare, dalle sedie dirigenziali, elementi come Silvano Arcamone o Anna Fermo che – alla fine – hanno optato per altre sedi. Scelte individuali di vita e carriera? Certo, e lo meritano ampiamente. Ma quanto ha influito la sottovalutazione che hanno fatto amministratori dalla vista corta? E siamo sicuri che un’altra risorsa preziosa, come Lello Montuori sia tenuto nel dovuto conto, per le competenze e le potenzialità che ha? La rivoluzione della burocrazia deve partire anche dalle poche certezze che abbiamo.

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