CULTURA & SOCIETA'

La human indépendance

Dletta Barbato e la storia di un lavoro “a misura d’uomo”: ecco come una nasce una passione che profuma di “magnetismo marino”

DI ARIANNA ORLANDO

Diletta Barbato, 26 anni, non mi ha chiesto di diventare né un aggettivo né un avverbio ma ugualmente ho dovuto agire e, in un luogo interiore, mentre l’ascoltavo l’ho trasmutata sia nell’uno che nell’altro e allora lei è diventata “determinata ambiziosamente” ed è così che la presento sotto un titolo che recita “la human indépendance” perché fondamentalmente questo mio scrivere è dipingere dei concetti e ritrarre le persone che li vestono dignitosamente. Esiste una terra liquida che è una non-patria, che è il grande e immenso oceano-mare di cui adoriamo rubare il blu, ed è lì che Diletta Barbato ha costruito la sua “nuova casa” che non è un’abitazione temporanea perchè la costanza, la persuasione che esista una vocazione insita dentro di noi e la persistenza la rendono una terzo ufficiale convinto. E sottolineo molte volte la lettera finale O perché Diletta Barbato è contraria al concetto generico nella descrizione delle professioni siccome già questo sancisce una, seppure solo apparente, discriminazione. Orgogliosamente dichiara di lavorare per la Carnival Cruise Line, colosso crocieristico di origine americana nel mondo e ancora più fieramente afferma, e io con lei, “mi sono fatta da me” e su questa affermazione breve e densa di significato si condensa l’anima del mio dire, del mio usare parole in continuazione, del mio raccontare perché una giovane donna di ventisei anni, che solca i mari con ambizione e determinazione, sia da inserirsi in un testo che porti il titolo la “human indépendance”. Si parla di Diletta Barbato perché lei fa un lavoro “a misura di uomo” e per tanti anni nessuno ha pensato che potesse essere invece un lavoro “a misura di persona”senza attributi di genere perché il lavoro, come mille altre cose al mondo e fuori dal mondo, non ne hanno bisogno.

Ma il lavoro, come mille altre cose dentro e fuori dal mondo, ha bisogno di passione e -come è nata la vocazione? Le dico, – Qual è stato il mare maestro? e Diletta dice che “il magnetismo marino” è venuto nel mondo dentro di lei spontaneamente, perché per osmosi il Mediterraneo, che abbraccia quest’isola da parte a parte, ha iniziato a inondarla e lei si è trovata piena di schiuma e salsedine al punto che si sente a casa solo sullo “scroscio” del mare. E allora siccome si dice che il simile conosce il simile, lei e il mare si sono riconosciuti: fatti della stessa sostanza fluida che non conosce gusci e contenitori, della stessa esigenza di straripare e disegnare le righe sulle cose, della stessa urgenza di essere indeterminati e indeterminabili, della stessa necessità di sovvertire i confini, anzi di non averne. Quindi per Diletta Barbato il lavoro di deck officer è una benedizione che si è conquistata con sacrifici e impegno e il mare è un genitore-maestro-casa-amico-strada che in America la fa scorrere da parte a parte come fosse una molecola d’acqua di fiume. “Non si può ridurre il lavoro di mare a un lavoro ben retribuito e basta, perché altrimenti non c’è magia, non c’è stimolo”, dice, “benché il guadagno sia una parte importante dell’indipendenza”. Diletta Barbato ci parla di una indipendenza che è indipendenza della mentalità, della conoscenza, del desiderio, del sacrificio e soprattutto dell’isolitudine, ossia quel concetto che si rappresenta come la spontanea tendenza dell’isolano a sentirsi spesso confortato dall’esistenza entro le mura scogliose, scandita dai ritmi del mare, indorata e nutrita dalla vegetazione mediterranea e dalle trame dei fili di strade conosciute da sempre. “Una delle cose belle del mio lavoro è la possibilità di interagire con moltissime culture e con moltissime persone” e questa idea della persona-libro e dello studio-viaggio ha soddisfatto qualsiasi esigenza antropologica.

Questa ragazza così giovane ha ribaltato l’Odissea ed è così che io immagino Penelope che lascia il telaio e dice “basta, non ne posso più! Parto anche io! Ciao Itaca, ciao!” e parte con il primo vascello indossando la divisa bianca di Diletta e il berretto che l’ha fatta innamorare la prima volta a otto anni. L’amore per Itaca, per le origini è viscerale, intenso e si esplica anche attraverso l’attaccamento alla famiglia che “è la prima cosa che mi manca”, eppure si dice che per comprendere cosa significhi tornare bisogna prima andare via e Diletta, la Penelope sovversiva, la donna paziente delle storie che si è trasformata in una viaggiatrice lavoratrice che ambisce a diventare comandante, conosce il valore dell’una e dell’altra cosa, desidera un oceano-mare umano che non abbia i confini dell’ignoranza, che non accetta nemmeno i limiti della discriminazione linguistica e che non dice più uomo e donna per dire ufficiale, che non si meraviglia di un ufficiale di macchina che sotto la divisa è femmina, che non cede alle lusinghe del razzismo e del sessismo che sono, a suo dire, declinazioni della stessa ignoranza gretta, della stessa incapacità di conoscere l’uomo e saperlo intendere semplicemente e totalmente come “umano”. Occorre dire che ciò che avevo in mente non era un discorso di melenso femminismo(che è troppo spesso un altro tipo di sessismo, un maschilismo al contrario), né avrei mai voluto concepire una prosa di domande del tipo “come ci si sente a essere una donna in un contesto maschile?”, “come reagiscono i tuoi colleghi davanti a te che sei un ufficiale donna?” perché dobbiamo comprendere che il ruolo delle parole è importante, che noi siamo fatti di parole e se le parole sono discriminatorie anche le persone che lo dicono saranno discriminanti. E si superano quindi le convinzioni che la figura accudente di una famiglia debba esclusivamente essere una donna, e si superano quindi i limiti delle predestinazioni e in nome a un “homo faber fortunae suae”, Diletta dice che lei è le scelte che compie ogni giorno e dov’è il progresso, dov’è l’emancipazione se dobbiamo chiederci in una famiglia chi faccia cosa e che ruolo abbia e a cosa bisogna rinunciare per essere eventualmente una madre e una donna in carriera o qualsiasi altra cosa e una donna in carriera. E si superano dunque i limiti dei termini uomo-donna perché uomo e donna sono concetti pari nei diritti e nei doveri, diversi per natura perché la natura è tutta diversa e allora si parla di integrarsi, di collaborare e di condividersi non di escludersi. E quindi Diletta, come riesci tu che sei donna a fare l’ufficiale? E come pensi di gestire una famiglia un giorno? E come farai a coniugare vita privata e carriera? Farò in questo modo: esattamente come fa un uomo.

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