LE OPINIONI

IL COMMENTO Il pizza gate si estende a Ischia

DI LUIGI DELLA MONICA

Francamente mi sarei astenuto dall’intervenire sull’argomento, se non ci fosse stata la trasmissione dell’astuto veterano del giornalismo Bruno Vespa, il quale, possa piacere o non piacere, ha preso il posto del “Maurizio Costanzo Show” che negli anni 90’ si gloriava di creare personaggi e questioni solo per essere apparsi nel suo programma. Qualche giorno fa ha compreso che la polemica fatta scoppiare da Briatore sul costo della pizza, per così dire regionalizzato, sarebbe stato uno scoop succulento, per cui ha invitato Gino Sorbillo ed il nostro eccellente maestro pizzaiolo Ivano Veccia. La trasmissione ha inteso propagare messaggi di pacificazione generale, a cui aderisco incondizionatamente, ma opportune riflessioni vanno sollecitate per comprendere la genesi del “pizza affaire” degli ultimi giorni.

La presenza di Ivano Veccia ci conforta su un dato inconfutabile, vale a dire che Ischia, parte integrante ed incisiva del brand turistico e gastronomico campano, produce una pizza di eccellenza e come scrissi tempo fa sulla zingara ischitana, il cui marchio è stato registrato a Procida, deve essere tutelata, coccolata, vezzeggiata e protetta con ogni mezzo lecito, sia esso mediatico, sia esso giuridico. Briatore ha formulato un interrogativo forse legittimo, ma errato nel modo e nel contesto. Si deve smetterla di adottare cinguettìi o post su social vari, per trasferire messaggi a cura di persone particolarmente famose, perché il fattore leoni da tastiera è dietro l’angolo (ricordate il caso della giornalista sportiva Pinna, dal cognome sardo, che canzonava il bambino tifoso calabrese con la frase: <<prima o poi verrai a cercare lavoro a Verona>>), rischiando così di abusare del pensiero, per manipolarlo o abusarlo a scopo razzista, secessionista, in altri termini debordando nell’ignoranza grossolana.

Flavio Briatore, a cui tutto si può dire, ma certamente non ha scelto una compagna del tipo della bellissima Federica Pellegrini, bellezza padana nordica, ma la calabresissima e bellissima Elisabetta Gregoracci, ha chiarito di aver voluto soltanto porre un problema di economia aziendale, dal momento che non si spiegava le fasce di prezzo a cui era venduta la sua pizza, come sproporzionata rispetto a quella più a buon mercato nel Centro-Sud Italia. Le intenzioni non erano malvagie, ma gli effetti della paternità della frase sono stati inusitati. È inevitabile che Briatore sia un abilissimo imprenditore, ma come tale dovrebbe ricordarsi che Neapolis è nata quasi cinquecento anni prima di Taurinum oppure di Augusta, che è diventata Aosta, è cioè il 21 dicembre del 435 a.c. e diversi decenni prima di Roma, caput mundi vi era il primo insediamento greco di Palepoli. Quello stesso primato imperialista romano, mai superato nel Mondo contemporaneo, ossessione di Carlo Magno, di Carlo V spagnolo, dell’Austria di Maria Teresa, della Inghilterra di Elisabetta I, fino ad Hitler ed oggi Putin, aveva designato la Campania Felix, come residenza privilegiata di tutto il Senato romano e dei patrizi, ceto dirigente dell’universo culturale ed economico allora conosciuto. I romani erano saggi periti di geografia economica e scoprirono che il territorio paludoso ed acquitrinoso delle sponde del Garigliano e del Volturno, come nella rigogliosa piana del Sele, erano zone microclimatiche perfette per il pascolo delle bufale.

E qui mi ricollego alla pizza, che ha come ingrediente essenziale la mozzarella di bufala, che non sopravvive al clima secco e brullo della pianura padana. Gli stessi romani che impiantarono le colture di grano nel tavoliere delle puglie, in Lucania e nell’alto cosentino, macinavano farina bianca e scura, che veniva stoccata nei depositi di Puteoli e poi distribuita in tutte le Provincie, per secoli e secoli nutrendo poveri e ricchi dell’Impero. Ancora, vorrei ricordare che l’importazione del pomodoro, dopo la scoperta delle Americhe, dimostrò che le pendici dei vulcani, quivi citiamo a pieno titolo il Vesuvio, ma anche il nostro Epomeo e tutta l’isola composta da 37 crateri, originava un limo, il quale dava alla luce dei pomodori del “piennolo” dal sapore ineguagliabile. Improvvisamente, nella Napoli borbonica, della festa, farina e forca, la povertà comunque difficile da sconfiggere, nonostante la regina consorte del Re Carlo III di Borbone avesse fatto erigere una delle strutture più grandi d’Europa per il ricovero dei senza tetto (il pio ospizio dei poveri), la particolare sapidità dell’acqua portata a Napoli dall’acquedotto greco fecero escogitare ad alcuni cuochi un pasto povero: acqua, farina lievitata ed un forno a legna portato a temperatura di circa 800 gradi Celsius “cca pummarola ngopp”.

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Dopo circa un secolo di pratica nei vicoli di Napoli, di trasmissione della tradizione culinaria di padre in figlio cuoco, ovvero di passa parola di massaia in massaia, di capera, in capera, da quartiere a quartiere, da seggio a seggio, un ristorante, precisamente il Brandi di Via Chiaia, codificò la ricetta della odierna pizza napoletana margherita, in onore della moglie del Re d’Italia Regina Margherita, in visita alla città. Un cibo dei poveri si vestiva di gusto e sacralità laica per essere presentato al cospetto di una tavola regale. Tutto il resto è storia, celebrata negli annali del cinema dal Genio Vittorio de Sica, nell’Oro di Napoli, quando osanna l’arte della pizza a libretto, iconizzata nella avvenente pizzaiola Sophia Loren, che veniva mangiata dal ricco commerciante di scarpe, dal guardiano notturno, dal vedovo inconsolabile aspirante suicida, da tutta la comunità napoletana, trasversale, democratica, tollerante, organizzata nel suo apparente caos a misura d’uomo. Questo è il background che Briatore doveva tenere a mente, prima di lanciare quella frase scomposta sul costo degli ingredienti della pizza napoletana. In primo luogo, nella Campania Felix si producono gli ingredienti essenziali della meravigliosa pizza napoletana: farina, acqua, olio, pomodoro e mozzarella; in secondo luogo, è nata come cibo delle masse, per poi indossare la veste di cibo nobile.

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Questo è il patrimonio ideologico della pizza, che se si vuole criticare si deve profondamente conoscere. Personalmente amo moltissimo la pizza “Don Carlo”, una margherita farcita con la parmigiana di melanzane, che è la più ischitana delle pizze che possa esistere, visto che ho già documentato in un mio precedente articolo che la parmigiana nasceva nelle mani delle sorelle Di Massa. Ma caro sig. Briatore, la prego la prossima volta di guardare Napoli, non con gli occhi del ricco piemontese imprenditore, ma con la storia profonda e millenaria di una città, che unica in Italia, consente la coesistenza di italiani, inglesi, americani, turchi, francesi, tedeschi, arabi, senegalesi, nigeriani, pakistani, cingalesi, giapponesi e cinesi, russi ed ukraini, oltre ad integrare l’omosessualità nella cultura popolare. Esiste però un rovescio della medaglia, perché il filosudismo a volte genera figli orbi. A questo proposito, va fatto un monito ai nostri amministratori locali isolani, al fine di accantonare le proprie presunte divisioni ideologiche e di fare quadrato per elaborare progetti idonei ad accedere ai fondi del PNRR. Forse la pace e la prosperità che ci dona la permanenza della nostra comunità nella N.A.T.O. ci fanno dimenticare con troppa superficialità, che a circa 2000km in linea d’aria un nemico vuole schiacciare questi valori, per noi oggi intoccabili, ma non tanto scontati, per cui gli ukraini stanno morendo da circa 4 mesi. Con i fondi del PNRR vi sono le premesse di un nuovo piano Marshall, che potrà donarci altri 70\80 anni di ricchezza, ma non vanno lasciati appassire.

Una “virtù” isolana è quella dell’asserire che un progetto se non viene partorito dall’isola non è buono, ma proprio l’isola è angustiata da decine di realtà imprenditoriali in forte crisi finanziaria. Ebbene sig. Briatore, con gli occhi e la mente di un piemontese non si risolvono i problemi di un’economia meridionale depressa, triplicando il prezzo di un alimento, che può ben essere commercializzato ad una fascia bassa. I problemi del Sud sono stati aggravati proprio da un gruppo di “conquistatori” piemontesi che con una modesta banchetta hanno rilevato un colosso creditizio come il Banco di Napoli, polmone economico dell’intero Sud Italia da oltre 450 anni. Il tempo è stato galantuomo circa 20 anni dopo il misfatto con il “Monte dei Paschi di Siena”, ma guarda il caso strano, la direzione e la proprietà è rimasta saldamente in mano toscana. La litania però non regge, perché proprio il ceto dirigente napoletano dell’epoca non ha mosso un ciglio, non ha recriminato con forza che tutti i titoli tossici dell’istituto napoletano sono stati per oltre il 90% recuperati.

In altri termini, il presunto scandalo della pizza a cinque euro, che è stato serenamente superato da Bruno Vespa, come si suol dire a tarallucci e vino, rischia di propagarsi a macchia d’olio se il Sud, di cui Ischia è orgogliosa perla, non si desta dal suo torpore di ritenere auto promozionale ed autoreferenziale la sua sola bellezza. Se non si negozia con l’innovatore, con il promotore di idee diverse dal contesto a cui si è abituati a dimensionare la propria mente di isolani, un giorno dal traghetto proveniente dalla terraferma non sbarcheranno i turisti, ma i compratori dell’isola a pochi centesimi, che la rivenderanno a terzi dieci volte il suo valore intrinseco.

* AVVOCATO

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