LE OPINIONI

LA RIFLESSIONE Il racconto (e la lezione) di Primo Levi

Venerdì, 24 gennaio 2025, 0re 5 e 40 sono in dialisi e mi hanno già attaccato alla macchina: sono il primo della giornata, poi verranno gli altri. Attorno al mio letto, tra gli altri, ci sono una polacca ed una messicana. Sono straniere sposate a Procida, ma la sofferenza e la malattia non hanno barriere e nazionalità. Fuori è buio pesto, occorrerà per lo meno un’altra ora perché cominci a scorgersi la luce dell’alba; non piove e non tira neanche vento. Che faccio? Mi collego ad Audible per leggere qualcosa. Scorro con il dito la “biblioteca”, mi capita sotto le mani “La tregua” di Primo Levi. Ho un soprassalto; lo lessi una ventina e più di anni fa. Mi infilo gli auricolari. La voce del lettore, Lino Guanciale, mi inonda. Di questo libro ne fu girato anche un film molto bello alcuni anni fa ed io lo vidi. La voce mi legge la prosa di Primo Levi. Come è bella! E’ un modo di descrivere le cose, gli ambienti, i personaggi molto preciso, ricco di significati, calmo (nonostante il tema!), articolato e con un lessico corposo. Il libro parte da una data precisa, il 27 gennaio 1945, giorno dell’arrivo dei Russi ad Auschwitz. E’ proprio Primo Levi in persona che narra. Nel campo sono rimasti Mentre qualche migliaio di derelitti, solo quelli che i Tedeschi non hanno potuto portare via perché incapaci anche di reggersi in piedi. Sono dei sopravvissuti perché hanno rischiato fino all’ultimo di essere fucilati; mentre penso queste cos si avvicina Elizabeth Marton, la segretaria del centro per chiedermi qualcosa. E’ una bella donna alta e bionda; è ungherese e mi vengono in mente le pianure di queste paese percorse da orde di soldati tedeschi che ammazzavano, stupravano e rubavano. Le sorrido, ma non le dico niente.

Primo Levi è malato, ha la scarlattina, non riesce neanche a stare in piedi, è tutto un dolore, la febbre è molto alta. In quella livida mattina di quel gennaio vide dalla finestra della baracca avvicinarsi e camminare per i viali alcuni soldati russi a cavallo. Si guardavano intorno con aria smarrita, le zampe dei cavalli scansavano i corpi dei morti all’esterno lungo i viali. I soldati si guardavano intorno smarriti. Poi vennero gli altri e tutti insieme si dettero da fare per soccorrere questi poveri cristi. Molti morivano prima di essere riusciti a mettere qualcosa in bocca. Primo Levi fu afferrato da due robuste braccia di due infermiere Russe, molto giovani. Fu caricato su un camioncino insieme ad un’altra ventina di prigionieri; fu portato in un altro complesso nei paraggi di Auschwitz; una costruzione grigia, informe. Le infermiere lo afferrarono, gli tolsero di dosso gli stracci che aveva, lo strofinarono con del sapone duro e lo lavarono con un violento spruzzo d’acqua. Anche gli altri prigionieri ebbero lo stesso trattamento. Poi arrivò una ragazza polacca, quasi una bambina, che trascinava una mucca. I prigionieri in men che non si dica, aiutati dai soldati, la macellarono e cominciarono ad arrostirne i pezzi. Per il campo si diffuse l’odore della carne arrostita. Molti ebbero un’espressione di disgusto. Avevano ancora nel naso l’odore del fumo dei forni crematori. Altri soggetti ebbero lo steso trattamento di pulizia. C’era un bambino di circa tre anni che non parlava, non gli si era sviluppato il linguaggio.

Le infermiere se lo erano preso a cuore e facevano a gara a chi gli doveva insegnare la prima parola. Mentre ascolto la voce che legge mi viene in mente che anche a Procida, durante la guerra, c’erano due ragazzi muti. Erano i figli di uno dei fratelli Schiffer, due ebrei ungheresi che stavano a Procida per sovrintendere alla centrale elettrica. Il parroco di una delle chiese isolane disse dall’altare che il mutismo dei due ragazzi era il segno della maledizione divina verso gli Ebrei. I Russi non facevano in tempo a soccorrere questi derelitti; morivano di continuo. Bisognava lasciare il campo, la neve era alta; pochi giorni e sarebbe iniziato il disgelo, cosa ancora più terribile perché tutto si trasformava in fango. Ed era difficile non solo camminare, ma anche mantenersi in piedi.

Primo Levi aveva ancora la febbre, poi un giorno, all’improvviso questa scomparve. Molti compagni di pena alla chetichella si erano allontanati dalla struttura. Erano scomparsi nella notte per raggiungere le proprie case lontane. anche Primo Levi una mattina si avviò fuori del campo. Doveva arrivare in Italia, a Torino. Partì a piedi, nella neve, per un lungo viaggio di cui non conosceva nulla. Tutte le comunicazioni erano interrotte; nelle stazioni si trovavano folle di persone sbandate, uomini, donne, bambini. Pianti, grida, violenze, ricerca affannosa di un po’ di cibo; incontri con gente di ogni qualità, gente per bene e veri e propri delinquenti. Il viaggio durò mesi. A stento i suoi lo riconobbero, avevano perso la speranza di rivederlo. L’uomo non riuscì neanche a parlare, la bocca gli si chiuse. Perché raccontare ciò che aveva sofferto? Si sedette sul primo scalino della scala di casa sua e pianse senza ritegno. Meditate, gente, che questo è stato…

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