CULTURA & SOCIETA'

La vita dell’isola intorno alle “sacre” parracine raccontate da Giovan Giuseppe Cervera

Strade e Parracine, ovvero la bellezza di una isola immersa nel canto poetico del sognatore. Giovan Giuseppe Cervera da Ischia Ponte, scrittore, poeta,narratore, regista teatrale e cinematografico, cultore della natura, ha scritto tanto su Ischia, le sue bellezze, le tradizioni, i semplici ambienti famigliari, il mare e i suoi frutti, i pescatori, i cacciatori, gli uccelli, la campagna, i pittori ed anche le strade, ossia i sentieri che portavano alla campagna e le stradine interne che intersecavano i campi. E l’ha amata come nessun altro. Proprio della campagna ha descritto soprattutto  le parracine dette anche muri a secco  e tutto ciò che era vita intorno a questo”rustico ornamento” di architettura rurale, se si può dire, che facevano da ali solide alle vie praticate da contadini e turisti..  

Ecco cosa scriveva in un prezioso poemetto del 1959 l’indimenticabile scrittore  e bravo cantore dell’isola: “Le parracine fanno parte delle bellezze non naturali, sebbene abbiano tratto la loro composizione generalmente dalle pietre di tufo, le quali, pertanto, rappresentano gli elementi, le sillabe di questo meraviglioso linguaggio che accompagna il turista nelle sue escursioni alla scoperta dell’Ischia sconosciuta. La forma rusticana con cui il colono volle recintare i suoi campi resta il più bell’ornamento delle nostre stradette di campagna anche se impervie e trascurate da chi di dovere,. L’ingegno e la fantasia che univano la necessità dello sfogo dell’acqua piovana imbevuta dal terreno ad un ornamento semplice e rustico s’incontrarono quando la mano dell’artista posò la prima pietra di questi muri a secco che il colono greco chiamò parracine. Le balze tagliate a scaloni le ebbero per contrafforti dando alle campagne ischitane un pregio ornamentale. Sul loro ciglio l’ingordo vignaiuolo incastonò, talvolta, acuminati cocci di vetro, per evitare al passante troppo prodigo coi beni altrui di piluccare arditamente i bei grappoli maturi per la vendemmia, o vi fece nascere il rovo spinoso; ma la natura, che asseconda l’opera dell’artista, vi fece spuntare gratuitamente il roseo fiore della cannochiara. E dalle fessure uscì la menta selvatica, e molte si rivestirono di parietaria, mentre alla base, sul verde fondo, gli anemoni incastonarono gemme azzurre e gialle.Quando da poco sono state erette, la pietra è fresca, bruna se lavica, gialla o verdina se tufacea, rossa se vicino sta una vena di roccia ferrigna. Col tempo si macchiano di chiazze bianche, poi si rivestono di muschio prima rossastro, poi verde, che i fanciulli raccolgono per coprire i loro presepi. Di giorno, quando il sole ne illumina di sbieco la facciata e gli interstizi appaiono bene ombrati, esse esprimono un ricamo, in cui si leggono i sobri pensieri dei contadini, le sommesse parole del solitario viandante, il canto degli uccelli, il verso dell’asinello, l’immagine del cacciatore e del cane. È un bassorilievo che racconta tutta la vita e i costumi dell’Isola. E questo bassorilievo, spiegandosi alla nostra contemplazione, ci mostra un susseguirsi d’immagini. Ecco i muli con la classica soma; le contadine col fascio d’erba in testa, cantando ariette patetiche; il comignolo che fumiga; la

massaia che cuoce il “coniglio alla cacciatora”; lo zappatore al lavoro; la noria, che al girar del somarello bendato riempie le capaci vasche. E poi filari di viti, balze a scaloni, alberi da

frutta ed erbe aromatiche. Di notte, quando la luna è piena, l’effetto si ripete; ma la scultura acquista una tonalità più poetica. Dalla sua reggia il grillo, fattosi sul limitare, incanta le notti col suo cri-cri. E quando tutto tace e il notturno silenzio avvolge la vita di sogni, chi nascostamente sta a spiare, vede quella vita statuaria a poco a poco animarsi: l’uccelletto salta di ramo in ramo; la vite s’abbraccia ai rami, intrecciandoli con amplessi svenevoli; l’uva premuta cola nei palmenti odorosi. Più in là quelli che battono il solaio di lapillo: i tamburi suonano; arrivano i grossi cesti imbandierati pieni di cibi profumati e, mentre i magli di legno – i “pentoni” – battono, tutti ballano e cantano: “curre, patrone, e porte u buttiglione”. Ecco l’alta scala a pioli; le campane di mezzogiorno; il fischio di primavera, di salcio bianco, suonato il 21 marzo; i fuochi artificiali sparati all’alba – la diana – per annunziare il giorno di festa; il crotalo che nel Venerdì santo andava suonato in giro pel paese, al posto delle campane; le nasselle piene di fichi al sole; i soffietti per lo zolfo; la vecchietta di pomodori; lo stridere delle tessitrici; la conserva sui tetti aprichi; l’uccelletto in gabbia; la cicala col suo rauco accento matura l’estate; il pescatore fa la nassa; il gozzo e i remi; le processioni del Santo Patrono per mare e quelle in campagna. Tutta linfa che scorreva girava intorno alle sacre parracine”. Le strade, quelle della Ischia alta, alla fine avevano un ruolo secondario.

                                                                                    michelelubrano@yahoo.it

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