CULTURA & SOCIETA'

“I bambini di Cutro”, conferenza e riflessioni al “Telese”

DI ARIANNA ORLANDO

Questo articolo si pone innanzitutto di fronte a una difficoltà insuperabile: scegliere di narrare la vicenda o di narratore la vicenda nella vicenda. Improrogabilmente tenteremo di fondere le cose, di mischiare le parole e cavarne un succo che sia il più amaro e aspro possibile. Questo ci sia concesso in quanto non si parla con parole d’amore della tragedia di Cutro e non si usa delicatezza o riguardo per quelle cose che sono avvenute senza delicatezza e senza riguardo. L’IPSAR Telese ha ospitato una conferenza dal titolo “I bambini di Cutro”. Integerrime, integre, ricche le parole del preside Sironi: è sembrato di assistere a uno stuolo di soldati in marcia che dalla sua lingua tra i baffi si riversavano sulla cattedra e infine sul pavimento fino a inondarci tutti con quella loro innaturale ispirazione al rispetto e al riserbo. I soldati di Sironi erano però tutti innocenti. Nessuna colpa temibile o terribile sulle loro teste e senza armi percorrevano le navate alla nostra destra e sinistra distribuendo ideologici fiori di alleanza.

I bambini di Cutro, dunque. La storia è all’incirca questa: un’imbarcazione al largo, eppure in prossimità, delle coste calabresi era l’unico osso vivo cui si aggrappavano le carni di 180 migranti. Carne araba, carne mediorientale, carne africana: carne umana, viva, pulsante. Attraverso molte miglia di mare l’osso si era tenuto a galla e aveva nuotato e aveva resistito come l’arca di Noè in mezzo al diluvio universale. Ma quella non era l’arca di Noè e quello non era un diluvio universale: era solo il diluvio personale di 180 migranti, uno sputo di umanità rigurgitato dalle viscere del capitalismo e dalle necessità belliche improrogabili, il prodotto scadente dell’effetto collaterale di una emergenza climatica che interessa a pochi, un brandello di umanità talmente povero che la sua esistenza si limitava a un punto invisibile in un mondo di punti più grossi. Quando l’imbarcazione stanca e sfatta arrancava nei pressi della costa, diceva Laura Marmorale dell’associazione Mediterranea Saving Humans, ben 48 ore prima del naufragio nel luogo solenne dove molti si sono recati in pellegrinaggio, sono stati emessi diversi segnali di allarme o del tutto ignorati o addirittura verificati da personale non addetto. Ai migranti di Cutro, che imbarcavano acqua e sale, e che stavano in 180 addossati gli uni sopra gli altri, hanno inviato la guardia di finanza per accertarsi che “fosse tutto in ordine”. E sì, gli illeciti non furono trovati, e sì che era tutto in ordine se non fosse stato che i migranti di Cutro galleggiavano su una lastra insufficiente, se non fosse stato che lentissimamente annegavano e vedevano e sognavano l’acqua che li avrebbe sommersi, se non fosse stato che sono discesi piano pianissimo nella loro liquida tomba, se non fosse stato che, come nel supplizio di Tantalo, hanno visto la terra che desideravano e ne sono stati privati alla distanza di un palmo.

Esiste una enorme e indefinibile tragicità nelle morti del mare: sono fini piene di speranza, interruzioni brusche, squarci e strappi nel flusso disomogeneo della vita. Ed esiste un incredibile paradosso: questo nostro mare, questo Mediterraneo dolcissimo, che è la culla della nostra civiltà e lo spirito protettivo dei nostri inverni e il fuoco delle nostre estati, che è la meta di tanti turisti, è in verità anche un oceano artico e ostile, un nemico oscuro e inguardabile, un terreno di sventura per chi deve attraversarlo a bordo di lamiere galleggianti con la preghiera che infervora e incendia il cuore. Gli studenti che hanno partecipato, alcuni provenivano anche dal liceo e altri dal turistico, erano affascinati dalle parole calde di Laura Marmorale (Mediterranea Human Saving) e di Marika Visconti (Associazione Less) sull’importanza della salvezza degli “impari”, ossia l’umanità proveniente dalle crepe del fato, cresciuta all’ombra del sole fortuna e che non conosce l’uguaglianza sociale e il diritto così come molti tra noi, quelli che sono occidentali fascisti, non lo conoscono. E hanno parlato queste voci anche dell’importanza dell’inclusione attraverso i percorsi dello studio della lingua e la formazione lavorativa. La referente dell’associazione Libera ha citato a quel punto l’introduzione di corsi di makeup etnico e culturale a favore della conoscenza degli ideali di bellezza in tutte le parti del mondo e questa è sembrata una profondissima idea di inclusione. Ancora si raccontano le accorate parole del preside Sironi che invita a diffidare delle politiche filofasciste in cui risuona ardente “prima gli italiani” e allora abbiamo immaginato gli stuoli dei popoli a piedi scalzi marciare verso le nostre indecisioni tra le nike e le adidas, le nostre scarpe di seconda mano, le nostre scarpe del mercato, i nostri sogni di scarpe di lusso e abbiamo pensato che è a piedi, e sempre a piedi, che si percorrono i viaggi più duri ma anche quelli più giusti perché è infinitamente giusto sperare di allontanarsi da un paese ostile e da un paese in guerra. 

Se l’Italia sceglie di guardare con diffidenza il nigeriano di Lagos, il sudanese di Singa, il tunisino di Tunisi, allora guardi con lo stesso sospetto l’americano di New York e il francese di Parigi, extracomunitari nello stesso e identico modo, e si sentirà incapace di sentire diseguaglianza e si sentirà incapace di spiegarsi il paradosso per cui “siamo tutti uguali ma alcuni sono più uguali degli altri”. Non è vero che gli stranieri “ci rubano il lavoro”: è vero invece che alcuni datori di lavoro accettano di sottopagare i lavoratori stranieri che accettano senza dubbio uno stipendio che nei loro canoni di cultura economica è sempre uno stipendio alto. È vero invece che il padrone della fabbrica che fa differenza sociale tra il suo operaio straniero e il suo operaio italiano intende poi pagare il secondo come il primo creando un danno perché il soldo africano, per dire, vale molto meno dell’euro. Allora non è degli “stranieri”, gli infiltrati in questo sistema che altrimenti sarebbe perfetto (leggasi con ironia), che bisogna avere paura ma della nostra qualità di indifesa di fronte alle ingiustizie, di fronte al concetto di eguaglianza che non siamo capaci di adoperare. 

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È stata letta inoltre dal preside Sironi la poesia di Aldo Masullo dedicata al fanciullo naufrago con la pagella sul cuore. Con questa concludiamo:

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La portavi cucita sul petto

– medaglia al tuo valore

risorsa estrema per avere almeno

un poco di rispetto –

l’orgogliosa pagella di scolaro

tu, solitario ragazzino perso

nell’immensa incertezza del migrare

corpicino in balia d’infide forze.

Non t’è servita

a salvarti la vita

ma t’è rimasta stretta sopra il cuore

fedele come il cane di famiglia

a custodir del tuo abbandono l’onta

e finalmente sbatterne l’orrore

in faccia all’impunita indifferenza

della presente umanità d’automi.

Pensate!

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