CULTURA & SOCIETA'

L’ANGOLO DEL LIBRO Donne perdute nell’Alzheimer

DI PIETRO NARDIELLO

L’Alzheimer si manifesta furtivo, silenzioso, bravo a dribblare i primi ostacoli come fantocci inermi. Indossando una maschera quasi pirandelliana, cela con accuratezza la propria identità, per poi penetrare come un bulldozer prima nella psiche e poi e nel corpo del malcapitato. Come un ladro, che espugna nelle ore notturne un appartamento che ha deciso di svaligiare, si impossessa, anche velocemente, della ricchezza dell’individuo, la memoria, agendo come un cassino impazzito che passa sulla lavagna. Nessuno riesce a identificarlo nell’immediato e anche i medici, quando gli atteggiamenti del malato indurrebbero a definirne una diagnosi oramai certa, provano a fuggire da questo compito proprio come se avessero paura di mettere nero su bianco e di scrivere quella maledetta parola maledetta dal sapore di condanna, che non ti lascia spiragli di speranza, che ti spinge nel bel mezzo di un labirinto oscuro da cui non si può venirne fuori.

Perdere l’identità significa vivere in un mondo che non ti appartiene, perdere l’autosufficienza, essendone consapevoli,significa perdere l’autostima che ognuno di noi ripone in se stesso. Tutto questo spinge la persona ammalata a vivere tra continui flaschbackche le mettono dinanzi agli occhi la sua dimensione di ammalato. Una situazione dura, difficile, complicata da affrontare e gestire che ricade completamente sui congiunti più prossimi quali mariti, mogli, figli che ora la legge definisce caregevir. Un mondo che potremmo definire fantascientifico, dal quale tutti fuggono perché l’Alzheimer è una malattia che incute paura. Così i caregevir iniziano a vivere un dramma nel dramma, dovendo affrontare le proprie insicurezze quotidiane, le paure, gli affanni notturni.

Con “Donne Perdute – ti ricordi di me? Storie di Alzheimer” (Turisa Editrice), la sociologa e pedagoga Mirella D’Orsi racconta la storia di donne che hanno incontrato questa malattia. Le vicende sono calate nel personale, fuggendo da qualsiasi trattato medico o indicazione legislativa, di quella quotidianità che possono conoscere e descrivere solo coloro che per dovere professionale (personale medico) e amore personale (congiunti) si prendono cura di queste persone. La scrittura dolce, gentile, a tratti sobria a tratti ricca di aggettivi ricompone i tasselli di un puzzle scomposto da un mare in continua tempesta imponendo al lettore emozioni forti ma necessarie. Ogni pagina che si termina dev’essere considerata una porta che si apre, una luce che si accende su quanto si ignori ancora di questa malattia. Bene ha fatto la D’Orsi a raccontare la semplicità dei gesti, i desideri repressi e quel tumultuoso magma incandescente da cui bisogna difendersi quando si è diventati attori di una messa in scena di cui non si sarebbe voluti essere mai protagonisti. Proprio le cose semplici carpiscono l’attenzione, anche di coloro che, spesso, possono apparire più distratti.

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