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Lavori sul lungomare di Citara, il pm non fa sconti: chieste tre condanne

Il pubblico ministero ha chiesto la condanna, con pene diverse, per i tre imputati nel processo  riguardante la realizzazione dei lavori sul lungomare di via Giovanni Mazzella fino a Citara. Come ricorderanno i lettori più attenti, la Procura della Repubblica di Napoli ipotizzò diversi reati nella conduzione delle opere di riqualificazione del litorale foriano, che vanno dalla truffa al falso materiale e al falso ideologico, reati contestati all’architetto Giovanni Matarese, direttore dei lavori e responsabile del VII settore presso il Comune di Forio; Dario Amoroso, che rivestiva il ruolo di responsabile del procedimento, e il collaudatore Giuseppe Castagliuolo. I tre professionisti erano ieri presenti in aula quando la pubblica accusa, nella discussione ha chiesto al giudice Capuano la condanna a due anni e mezzo di reclusione per l’architetto Matarese, a un anno per Amoroso e a un anno e sei mesi per Castagliuolo. Il giudice ha poi stabilito che dei tre difensori, gli avvocati Di Meglio, Pesce e Iannuzzi, fosse quest’ultimo a discutere e a formulare le proprie conclusioni per primo. Per gli altri due legali  vi sarà spazio nella prossima udienza. L’avvocato Iannuzzi, difensore di fiducia del geometra Dario Amoroso, si è riportato alla memoria difensiva depositata, per poi illustrare sinteticamente i motivi a discarico in relazione ai vari capi d’accusa, a cominciare da quella di truffa. Iannuzzi ha ribadito che le opere di riqualificazione del litorale erano assegnati “a corpo”, dove  l’importo da riconoscere all’appaltatore è una somma invariabile, riferita al totale dell’opera, che non può assolutamente subire variazioni, poiché in caso di imprevisti dovuti al prolungamento lavori o di sbaglio dei calcoli quantitativi, la ditta rischia di avere un bilancio totale dell’opera negativo.

Tale tipologia elimina i rischi per l’ente appaltante, a differenza dell’appalto “a misura” in cui il corrispettivo viene determinato secondo le unità di misura del lavoro finito. Quindi, ha spiegato l’avvocato, rileva ben poco il costo dell’approvvigionamento dei materiali, e ancor meno il costo di smaltimento. Quanto alle verifiche, esse spettano al direttore dei lavori. Secondo il legale, gli investigatori sono incorsi in errore, perché nella fase esecutiva dell’opera il responsabile del procedimento incide in misura del tutto trascurabile. Il contratto e il capitolato d’appalto, ha spiegato l’avvocato Iannuzzi, non prevedevano all’epoca pagamenti su fatture, cosa che la legge ha previsto soltanto successivamente, con il risultato che gli inquirenti hanno imputato all’Amoroso ciò che lui non era tenuto a fare. Quanto al reato di omissione di denuncia, il penalista ha affermato che anche tale imputazione è da disattendere, in quanto nella nota “incriminata” in cui la società Italstrade (che aveva ottenuto l’appalto dei lavori) indicava la destinazione dei materiali di risulta, tale destinazione era ancora oggetto di indagine e non era da considerarsi illecita, o quantomeno dal documento non emergeva l’illiceità. Quindi, è la tesi difensiva, non si capisce cosa avrebbe dovuto denunciare l’Amoroso. L’avvocato Iannuzzi ha poi concluso la sua arringa chiedendo l’assoluzione per il suo assistito con la motivazione che il fatto non sussiste o, in subordine, per non aver commesso il fatto. Per gli avvocati Giuseppe Di Meglio e Raffaele Pesce le conclusioni sono rinviate all’udienza del prossimo 7 dicembre: il giudice Capuano ha annunciato che nella stessa occasione pronuncerà il suo verdetto. Siamo dunque a pochi giorni dal termine di un processo lungo oltre quattro anni e incardinato sulla base di indagini iniziate quasi otto anni fa, e che è ruotato principalmente intorno al destino di oltre duemila metri cubi di materiale di risulta prodotto nel corso dei lavori, che secondo l’accusa non sarebbe stato smaltito secondo le disposizioni legislative vigenti.

Francesco Ferrandino

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