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La vera vita

Gentile Professore,

ho venticinque anni e sono un informatico piuttosto abile, così almeno dicono. Potrei guadagnare di più, come fanno altri miei colleghi che dedicano intere giornate a rispondere alle richieste di lavoro. Infatti, malgrado la crisi, alla fine quelle non mancano.

Io, però, ho sviluppato da qualche anno una passione per la pittura digitale e, appena posso, mi ci dedico. Dai miei familiari e anche  dagli amici spesso vengo giudicato con sospetto, come se fossi un perdigiorno che non capisce che occasione ha di arricchirsi e come va davvero la vita.

Di recente, ho avuto una conversazione con un conoscente, un professionista cinquantenne, il quale rimpiangeva la sua gioventù ormai sempre più sfuggente e sembrava invidiare la mia. Mi ha chiesto di cosa mi occupassi esattamente e io glielo ho spiegato. Poi, ho aggiunto, della mia passione. È rimasto prima perplesso; quindi, rapidamente, ha sorriso e mi ha chiesto se vendessi le mie opere. Gli ho risposto di no, non per il momento almeno. Allora, lui ha concluso la conversazione affermando, con una sicurezza che non ammetteva repliche, che, in qualunque caso, il mostrarle mi avrebbe comportato una visibilità maggiore e un ritorno materiale per la mia attività. Non ho saputo, né voluto ribattere, mentre la persona mi salutava e si allontanava con le sue convinzioni.

Tra me, però, mi sono chiesto: sono sbagliato io? Sono inadatto al mondo? Non ne comprendo e non ne voglio comprendere il reale funzionamento? E se è così, che fare?  

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Gentile lettore,

la sua lettera tocca un nervo scoperto dell’esistenza di ogni persona sensibile e poco indaffarata ad accumulare soldi, ammesso che arricchirsi sia facile – cosa di cui dubito assai. In più unisce, per nulla casualmente, due temi apparentemente antitetici: la mentalità economicistica e materialistica fattasi despota assoluta dell’esistenza e la complementare fuga verso un’eterna gioventù, un’adolescenza perpetua, in cui ogni passaggio critico viene rinviato a un domani fumoso.

Tutto ciò mi ricorda il primo aforisma di Minima Moralia (il cui significativo sottotitolo è Meditazioni della vita offesa), famoso libro di Theodor W. Adorno, filosofo della Scuola di Francoforte, riparato negli Stati Uniti, durante il Nazismo. Il testo uscì nel 1951 ed appare straordinariamente visionario, poiché costituisce una critica serrata non solo del fascismo ma anche della deriva imposta all’uomo occidentale dal sistema capitalistico. La posta, a quanto pare, è la distruzione della vita spirituale stessa dell’essere umano. Come un’onda il processo denunciato dal filosofo tedesco sembra essersi ingrossato nel tempo per abbattersi ancora più potentemente sulla dimensione psichica e sociale contemporanea, impregnando di sé le fantasie che dirigono i nostri atti e mediano le nostre relazioni.

Ecco il passaggio di Adorno: «Anche l’attività spirituale è diventata nel frattempo “pratica”, un’azienda con rigida divisione del lavoro, branche e numerus clausus. […]

La compartimentazione dello spirito è un mezzo per liquidarlo dove non è esercitato ex officio, e un mezzo che funziona tanto più egregiamente in quanto colui che denuncia la divisione del lavoro (anche solo in quanto il suo lavoro gli procura piacere) scopre – dal punto di vista di quella – punti deboli che sono inseparabili dai momenti della sua superiorità. Così si provvede alla conservazione dell’ordine: gli uni debbono collaborare perché altrimenti non potrebbero vivere, e quelli che potrebbero vivere altrimenti, vengono tenuti al bando perché non vogliono collaborare. È la vendetta della classe disertata dagli intellettuali indipendenti: le sue esigenze s’impongono fatalmente proprio là dove il disertore cerca rifugio»  [Theodor W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino, 1994, pagg. 12-13 ].

In effetti, caro lettore, la sua vocazione a un benessere psichico e spirituale, attraverso il piacere che le procura l’attività espressiva, a prescindere dal guadagno che essa le possa procurare, dal “servire a qualcosa” della sua pratica, dall’esimersi dall’essere funzionale a qualcosa, appare particolarmente sconcertante per chi è piegato sotto il giogo della mentalità collettiva. Ciò, per altro, risulta anche conflittuale con ciò che di lei è inconsciamente legato a tale dimensione collettiva. Il conflitto non è solo con i valori esteriori del mondo, quindi,bensì con quell’imperversare delle idee dominanti che albergano in sé. E lo sforzo psicologico che ora le si richiede e di riconoscere tali forze in sé oltre che negli altri.

Il secondo punto della sua lettera, quello del rimpianto della giovinezza nel suo interlocutore, riconduce a ciò che mette in luce, con grande acume, il filosofo francese Alain Badiou in un recentissimo libro, dal titolo La vera vita (sottotitolo: Appello alla corruzione dei giovani, Ponte alle Grazie, Milano, 2016).

Qui, Badiou si appella alla lezione di Socrate, condannato a morte per aver “corrotto” i giovani di Atene sul piano delle idee, cioè di averli indotti a mettere in discussione gli assiomi della città, stimolandoli a sottoporre ad analisi soggettiva le questioni date per assodate e indiscutibili dalla tradizione collettiva, alla ricerca di una verità più personale e profonda.

La disamina di Badiou rintraccia nell’attuale società un duplice movimento: l’uno verso la carrierizzazione, per cui ogni aspetto dell’esistenza diventa funzionale a scalare il potere e a guadagnare denaro; l’altro verso una rigida ripartizione dei ruoli sessuali tra maschi e femmine: gli uni spinti, da una mancata iniziazione culturale a una eterna adolescenza, spesso contraddistinta da una sfrenatezza che non trova sostanza simbolica; le altre a ruoli di iperresponsabilità, estremamente funzionali allo sviluppo del nuovo capitalismo stesso.

In opposizione a queste spinte, vi sono ritorni al tradizionalismo religioso e nazionalista, espressioni sacrificali del corpo, rimpianti autoritari.

Nel caso della persona con cui lei si è confrontato, la pulsione carrieristica contemplava, come contraltare anche la fuga in un’evasione adolescenziale quasi patetica.

Di questa materia siamo, in una certa misura, fatti tutti noi, a causa dei processi strutturali della società: esserne consapevoli resta la nostra forza e esprime il possibile grado di libertà.

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Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma in una scuola di specializzazione per psicoterapeuti, formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma e a Ischia. Ha fondato e dirige il webzine e il quadrimestrale internazionali “Animamediatica”.

Contatti

E-mail: francescofrigione62@gmail.it

 

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