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Le emozioni del mare nei piatti stellati di Pasquale Palamaro

Reduce dalla riconferma della stella Michelin, l’Executive Chef di Indaco al Regina Isabella racconta una nuova cucina di mare: territorio e ricerca, rispetto per la materia prima e un’irrefrenabile passione, il pesce “povero ma buono”

di Malinda Sassu

I sogni, se vengono coltivati con costanza e passione, possono diventare realtà e portare lontano, anche più di quanto si possa aver desiderato; solo così quel lavoro, come diceva qualcuno, lo si amerà così tanto da pensare di non aver mai versato una sola goccia di sudore. È questa, in sintesi, la storia professionale di Pasquale Palamaro, chef stellato e, soprattutto, cuore e anima di una tradizione marinara che si trasforma e diventa gourmet. Tutti i colori del mare si riversano nei suoi piatti al ristorante Indaco, perla della ristorazione isolana; pennellate di luce che si mescolano in una cucina frutto di sintesi e raffinatezza, di territorio ma anche di una profonda ricerca storica e culturale. Un approccio al mare che ricorda il mitico tri-stellato Angel Lèon, lo chef del mare di Aponiente a El Puerto de Santa Marìa, non a caso tanto ammirato dallo chef di Indaco.

– Chef Palamaro partiamo dai suoi ultimi premi, ovvero la riconferma della Stella Michelin e le Due Forchette Gambero Rosso. Considerando l’Annus horribilis si può ritenere ampiamente soddisfatto

Assolutamente sì. In questo periodo tutte queste riconferme, unite alla fiducia dei clienti che ti vengono a trovare e la continuità economica del locale possono davvero considerarsi una grande vittoria

– Come nasce la sua passione per la cucina e qual è il suo percorso lavorativo?

Ma guarda, io sono un cuoco della tradizione ma il destino ha voluto che mi trovassi come sous chef alla presenza di chef stellati invitati dalla famiglia Carriero in una serie di cene esclusive. Lì, come io dico, mi “ammalai di cucina” nell’ascoltare Cannavacciuolo, Aimo e Nadia o Anthony Genovese, giusto per citarne alcuni: da allora non ho mai più smesso, continuando nel tempo a frequentare stage presso ristoranti stellati. Nel 2010 ero pronto per mettermi alla guida dell’Indaco. Nel 2013 è arrivata la stella Michelin e da due anni a questa parte, il cambiamento radicale del mio percorso: ho riconosciuto me stesso nel rappresentare il mare, nei miei piatti dall’impronta sperimentale. Quest’anno, in particolare, ho iniziato un lavoro strettissimo con i piccoli pescatori e con il Feamp (Fondo Europeo per gli affari marittimi e pesca) a sostegno specifico della pesca sostenibile. Lavorando con il pesce povero, quello che normalmente il pescatore “regala” ai gabbiani perché non richiesto dai mercati, ho scoperto un mondo affascinante che ho ricreato nei miei piatti

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«La cucina è un donarsi al cliente. Quando preparo un ingrediente, so di averlo scelto perché ho conosciuto il contadino, il pescatore o l’allevatore che me l’ha venduto»

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  • Una delle sue caratteristiche è anche la grande capacità di circondarsi di un gruppo di lavoro affiatato. Quanto è importante il ruolo della brigata nel successo di una cucina stellata?

Credo da sempre nelle persone e nel lavoro di squadra, per questo cerco di avere un rapporto cordiale con il mio team, sono fortemente convinto infatti che solo motivandolo si possa dare sempre di più. Quando ho iniziato all’Indaco ero solo in cucina e con un aiutante in sala. Oggi con me ci sono otto cuochi e tre camerieri. Il lavoro di uno chef è faticoso e lo dimostrano le tante ore passate in cucina: eppure, i miei ragazzi chiedono di utilizzare il loro tempo libero per creare nuovi piatti in cucina, piuttosto che andare a casa e riposare

  • Nel corso degli anni, la figura dello chef è diventata, da personaggio del “dietro le quinte”, una vera e propria star. Come è cambiata la sua vita in tal senso e come si è modificata la ristorazione al tempo dei social?

Quando iniziai a lavorare, 26 anni fa, il cuoco era considerata una categoria lavorativa di bassa importanza, tant’è vero che i miei genitori non volevano che intraprendessi questo percorso. Mi sono invece ritrovato, con la giusta maturità, in un contesto decisamente diverso come quello della cucina stellata. Il rovescio della medaglia è che i social e i media televisivi hanno reso lo chef protagonista di un mondo al quale si sono avvicinate persone talvolta non realmente motivate, che non portano dentro quel fuoco della passione. I ragazzi che si avvicinano al mondo della cucina dovrebbero riflettere un po’ di più su questo, perché il nostro lavoro è fatto soprattutto di tanta fatica e sacrifici.

  • Chef Palamaro cos’è per lei la cucina e quali caratteristiche dovrebbe avere un piatto?

La cucina per me è un donarsi al cliente, curandone le emozioni ma anche l’approccio salutistico.  Cerco, quindi, di mantenere uno standard molto alto nella ricerca dei miei prodotti. Quando preparo un ingrediente, so di averlo scelto perché ho conosciuto il contadino, il pescatore o l’allevatore che me l’ha venduto. C’è sempre una conoscenza umana dietro la preparazione dei miei piatti. Il mio concetto di cucina è fatto di emozioni continue da dare ai miei clienti, che possano rimanere impresse nella mente e ricordarle nel tempo. L’unica grande paura è quella tipica di tutti gli chef, ovvero il timore che un cliente possa dopo qualche giorno aver dimenticato l’esperienza avuta con la mia cucina. Grazie al cielo, sinora non mi è mai capitato.

  • Qual è il piatto che maggiormente la rappresenta?

È quello che non posso togliere dal menu perché tanto richiesto: “aculei di mare”, il finto riccio a base di ricciola. Ero solito mandare i ragazzi a raccogliere i ricci da utilizzare in cucina ma poi la zona divenne parco protetto. Un giorno, seduto sulla battigia, osservando un riccio a fior d’acqua fui preso da una grande nostalgia e decisi per questo di ricrearlo.

  • Quali sono le tre parole del suo vocabolario gastronomico che caratterizzano la sua idea di cuisine? Conoscendola, per me è territorio, mare e contaminazioni. D’altronde, il suo è un lavoro unico sull’ecosistema ittico fatto di ricerca e costante evoluzione  

È vero, questi tre termini sono coerenti con la mia filosofia di cucina. Il mare sicuramente, il territorio perché cerco sempre di dare un messaggio con il mio vissuto e contaminazioni perché in un mio piatto c’è sempre qualcosa che porto con me dal ritorno dei miei viaggi. Ho imparato tantissimo dai pescatori e, ancor prima, dai contadini perché ricordiamo che Ischia è un’isola ma ha una forte tradizione agricola. Uscendo in mare con questi pescatori ho capito quanto duro sia il loro lavoro, proprio per questo pago molto di più il mio pescato del giorno. La fatica di questa gente va ricompensata cercando di dar loro valore, sostegno e rispetto. Inoltre, cerco di comprare tutto, non solo quello che mi serve, in quanto ho la fortuna di avere altri due ristoranti all’interno del Regina Isabella. E devo dire che quando vado a trovarli sui banchi ho sempre il caffè offerto!

«A Ischia ci sono i gamberoni più grandi e più belli di quelli di Mazara: talmente freschi che vanno consumati subito, una vera rarità».

  • Lei ha sempre assicurato che i gamberoni ischitani sono migliori di quelli di Mazara. Ci faccia capire meglio……

Non sapevo che a Ischia ci fossero dei gamberoni più grandi e più belli di quelli di Mazara e quando l’ho scoperto sono andato fuori di me: talmente freschi che vanno consumati subito, una vera rarità.

  • Su cosa sta lavorando ultimamente dal punto di vista “tecnico”?

Una bella collaborazione con il CMR di Lecce ed esattamente con il prof Piraino e la dott.ssa Leone mi hanno convinto della commestibilità delle meduse. Ne è nata una ricetta già comparsa nel loro libro e che spero di inserire nel prossimo menu. Il progetto è nato dopo aver visto una coppia di clienti preferire la piscina poiché spaventati dalla loro presenza in mare, ho pensato quindi che si potesse creare una filiera che parte dalla pesca in mare delle meduse alla loro  trasformazione in cucina per poter poi dare al cliente l’esperienza di una cucina decisamente diversa.

  • Chef, mi racconta la sua Ischia?

Per quanto se ne dica,Ischia è autentica e verace. Io la definisco un’isola senza filtri e dall’impronta così vera e così contadina da renderla pura. Non possiamo immaginare un’isola diversa dettata dal glamour o dal jet set. Lo dimostra anche la sua grande capacità di sfornare chef di cui ben cinque stellati unitamente ai grandi successi nel campo vitivinicolo. Un’isola dalle radici sane e pulite e che preferisco a qualsiasi altra isola italiana.

  • Un’isola però in continuo scontro con il turismo di massa ma che cerca di conquistare sempre più terreno sul turismo di qualità. La ristorazione c’è, la filiera è ormai organizzata. Insomma, chef Palamaro, Ischia può puntare ad un turismo enogastronomico di alto profilo ma qualcosa manca ancora…

Io credo che manchi solo un po’ di professionalità: il turista enogastronomico è esigente e per essere a certi livelli, non puoi lavorarci se non hai vissuto l’atmosfera di un cinque stelle; l’ischitano è affabile e disponibile ma a volte manca quella cultura tale da rapportarsi con un certo tipo di clientela che mastica di arte, moda e cultura. Insomma, è un fatto di stile e a noi manca ancora la cultura del savoir faire. Un esempio? Abbiamo un istituto alberghiero di grande professionalità; eppure, ai ragazzi non viene insegnata, ad esempio, la geografia enogastronomica o la storia delle nostre cucine di territorio.

  • In merito a questo, a settembre, sono arrivati sull’Isola i vertici di Gambero Rosso con a capo il presidente, Paolo Cuccia, per un progetto dedicato a Ischia. Ci può anticipare qualcosa?

È stato un incontro molto interessante, basato soprattutto sulla formazione nella regione Campania. La domanda è stata quella di unire il pubblico al privato: gli istituti alberghieri sono tantissimi ma non capaci di disporre dello stesso patrimonio di quello privato. Gli studenti potrebbero quindi approfondire determinate conoscenze negli ultimi anni di formazione presso scuole specializzate, proprio per dare quel piglio manageriale che nel pubblico francamente manca. Una proposta davvero interessante per il comparto.

  • Come nasce la formula di successo di Indaco? Come riesce a mantenere uno standard di qualità tanto elevato?

Io ho aperto Indaco da solo, ci ho creduto fortemente e nonostante gli esordi non proprio facilissimi sono arrivato sin qui. Basta crederci. Ogni piatto che uno chef crea è come un figlio e con umiltà va cresciuto e nutrito. Questo è il nostro successo, la caparbietà nel credere nei propri valori

  • C’è un insegnamento che le è rimasto nel cuore?

Una persona che mi ha fatto amare la cucina è stato Franco, cuoco di un hotel a quattro stelle ai Maronti, dove io ho iniziato. Mi ha fatto capire che potevo imparare mille ricette da tutto il mondo ma che c’era solo un solo modo che accomuna tutti i cuochi: quello di entrare in cucina in punta di piedi, con rispetto per la materia prima e soprattutto per il cliente

  • Ci sono oltre 7 miliardi di persone sulla terra, 1,3 miliardi di tonnellate di cibo sprecate ogni anno mentre 860 milioni di persone non hanno di che mangiare. Pensa che sia il momento di proporre ricette ecosostenibili?

Il problema è che siamo in ritardo. I nostri genitori ci avevano insegnato a non sprecare il cibo e il messaggio degli chef sarebbe di certo importante ma occorre, prima di tutto, partire dalle scuole, non solo quelle alberghiere. Perché è una questione etica. Prima di tutto

  • Quale sarà per lei il cuoco del futuro?

Sarà green e sostenibile, ben venga che già ora vengano premiati coloro che fanno poco show ma molto contenuto. Sarà un cuoco rispettoso dell’ambiente, che non fa spreco e rispetta la materia prima. I giovani verranno costruiti sull’idea di queste basi e sono positivo sul fatto che il futuro sarà sicuramente più roseo.  

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