CULTURA & SOCIETA'

Le parole che legano il nostro dialetto ai greci

Un interessante incontro con la professoressa Titti Lauro che a Il Golfo spiega come l’etimologia di alcuni termini sia riconducibile a un popolo che non ci ha lasciato solo reperti archeologici da scavare

Non stiamo dando la giusta importanza alle cose e la causa è sempre la stessa, il COVID. Stanno scivolando via, come l’acqua che scorre nel letto di un fiume. Mi ha colpito, nella giornata nazionale della lingua greca, un post della professoressa Titti Lauro: “Ci sono parole che noi usiamo abitualmente nel nostro dialetto che sono greche, eppure lo ignoriamo. È talmente bello, invece, conoscere il loro percorso fino a noi, poiché i Greci non hanno lasciato solo reperti, siti archeologici da scavare, che hanno permesso di ricostruire la nostra memoria storica. Siamo legati ai Greci con un filo invisibile ma profondo, fatto di tante parole, parole che usiamo abitualmente e di cui ignoriamo la provenienza. Ed è un linguaggio così caldo, che tradotto in italiano non ha la stessa intensità. È intraducibile a volte, ma incredibilmente affascinante”.

Ho chiamato la professoressa Titti Lauro per il piacere di saperne di più ed ha accolto il mio invito. Purtroppo non ci è stata consentita una chiacchierata davanti a un caffè, ma quando si tratta di donne un modo lo si trova sempre.

I Greci non hanno lasciato solo crastole.

«I Greci sono il fondamento della nostra civiltà. Oltre ai resti archeologici e alle testimonianze letterarie, sono germogliati ovunque tra noi i semi della loro paternità. Del resto, la stessa parola “crastula” , che volgarmente indica i cocci archeologici, deriva dal verbo greco “klàzo”, che significa “rompere, spezzare “. Il termine è presente anche nella canzone napoletana ‘A casciaforte’, dove, tra gli oggetti ricordo del passato, si cita una “crastula e’

specchio”. Molte nostre abitudini della vita materiale e sociale, la nostra lingua e i nostri dialetti, fino ad arrivare all’organizzazione del pensiero e alla logica, sono attinti direttamente dal mondo greco, anche attraverso mediazioni successive. L’eredità culturale dei Greci è presente e viva nel nostro patrimonio culturale e nei nostri geni, a dispetto di tante vicende storiche che possono averci talvolta allontanato, al punto che ancora oggi, se fate un viaggio in Grecia, prima o poi verrete accolti benevolmente dalla frase: “Italiani e Greci: una faccia, una razza!».

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Mi dice qualcosa sulle tracce del loro linguaggio?

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«Le tracce del greco sono in gran parte dei termini italiani, insieme alle trasformazioni del latino, nella loro comune derivazione dall’indoeuropeo. Ma prima che nell’italiano, il greco e il latino sono presenti nel dialetto. Alcuni esempi: -“Pazziare”, ossia “giocare”, deriva dal verbo greco “páizo”, che ha la radice del sostantivo “páis” = fanciullo. Dunque indica il “fare cose da bambini”.

-“Cresòmmola”= albicocca. Termine del dialetto che va perdendosi, ma che letteralmente vuol dire “frutto d’oro”. “Petrusino”, cioè  “prezzemolo”, deriva dal greco “petrosèlinon”. “Zimbero” è chiamato in dialetto il caprone, direttamente dal greco “chimmaros”. “Puteca” (=bottega, negozio) deriva dal termine greco “apotheke”, mentre “accattare” (=comprare) è derivato del corrispondente verbo greco “ktàomai”. “Pàcchero” è uno schiaffone sonoro (entrambi i termini indicano anche un formato di pasta largo) ed è parola composta, formata dall’aggettivo “pas” (=tutto) + il sostantivo “chèir” (=mano), perché viene assestato -con soddisfazione- “con tutta la mano”. -“Cántaro” poi, in napoletano il vaso da notte, utilizza lo stesso termine che nel greco (kàntharos) indicava una grande coppa a due manici, destinata a più nobile uso, ossia a contenere il vino da bere o offrire nelle libagioni, molto spesso anche riccamente decorata. Giusto per fare solo qualche esempio anche del latino rimasto nel dialetto, possiamo citare: “All’intrasatta”, un’espressione avverbiale equivalente all’italiano “all’improvviso” e che deriva dal latino “intra acta”, ossia  “nel bel mezzo dei fatti”. “Pastenaca” , in dialetto la carota, e “cerasa”, la ciliegia, esattamente come venivano chiamate anche in latino. “Isso”, il pronome maschile che significa “egli”, “lui”, che appunto in latino si dice “is”. “Mantesino”, cioè il grembiule in dialetto, trae poi origine dall’espressione “mantus  ante sinum “, cioè “manto dinanzi al grembo».

Insomma, il dialetto come lingua e non espressione popolare.

«Il discorso sarebbe lungo, ma anche al tempo dei Romani già non si parlava il latino che noi conosciamo dai testi classici. Questo era la lingua della letteratura, con scelte, a volte, legate al singolo autore. La lingua parlata era invece molto più duttile e mobile, rispecchiava, come per tutte le lingue, il contesto dei parlanti, il grado di istruzione e altri fattori vari, compresa l’area di diffusione. Ad es. Il termine “cavallo” nel latino classico era “equus”, ma nel parlato sappiamo che veniva usato “caballus”. Attraverso progressive trasformazioni, i dialetti si sono fissati poi nel tempo, nelle diverse regioni geografiche, come un vero e proprio sistema linguistico, con delle proprie regole e una propria grammatica. Sbagliamo, se crediamo che il dialetto sia frutto di una parlata poco curata o, peggio ancora, dell’ignoranza. Le differenziazioni sono frutto di vari eventi storici. In seguito il nostro italiano, modellato soprattutto sul toscano, ha poi iniziato ad affermarsi come lingua di tutti, a partire dalla produzione dei padri della nostra letteratura (Dante, Petrarca, Boccaccio). Ma i dialetti, vivissimi nelle realtà non letterarie, hanno mantenuto la loro dignità e diffusione, per essere poi progressivamente sostituiti dall’italiano, man mano che si completava il processo di unificazione nazionale e si introduceva l’obbligo scolastico».

Parole che non hanno lo stesso significato in italiano.

«Eppure vi sono termini del dialetto che sono talmente pregnanti da non trovare un corrispettivo equivalente nella lingua italiana. Citiamo qualche esempio: “Intalliarsi” è un verbo molto rappresentativo dell’essenza napoletana. Indica il soffermarsi, il perdere tempo, spesso accompagnato da una sorta di indolente compiacimento, quasi una sintesi della filosofia spicciola partenopea, di un modo di essere. Secondo alcuni, la parola potrebbe derivare dal greco “enthàllein”, cioè “germogliare”. Come dire: soffermarsi talmente a lungo che spuntano addirittura i germogli. Quindi un perdere tempo, ma non del tutto infruttuoso. “Uósemo” è poi un termine che indica in dialetto un odore, un profumo, ma soprattutto, in senso figurato, un presentimento, un presagio. In italiano non compare, ma il termine dialettale deriva appunto dal greco “osmè”, anche usato con la stessa accezione metaforica. -“Intufare”/”intufato” significa gonfiare/gonfiato a dismisura. Spesso viene utilizzato per dire che ci si sente estremamente sazi oltre il normale. Oppure si usa in modo colorito o poco gentile, per descrivere un ingrassamento eccessivo. Ed ecco che subito evoca ricordi mitologici del gigante Typhôn (Tifone), che “gonfiando” le sue gote scatenava vortici e tempeste. -“Nzallanuto” è in napoletano la persona rimbambita, rincitrullita, confusa; la sua origine è dal verbo greco “seleniào”, ovvero “essere sotto l’effetto della luna”, nello stesso significato con cui si è generata, in italiano, la parola “lunatico».

La loro eredità fino a ai nostri giorni delle parole che usiamo e spesso ignoriamo.

«Molti termini italiani hanno una riconoscibile etimologia dal latino e dal greco. A titolo di esempio, si possono ricordare tantissimi termini medici, il cui significato, apparentemente difficile, attraverso la scomposizione dal greco ci viene svelato facilmente: uno tra tutti è la parola composta “otorinolaringoiatra”, medico (iatròs) di orecchio (ous, otòs), naso (ris, rinòs) e gola (larynx). Ma un’altra parola mi piace ricordare tra tutte: “antologia”. Si usa per indicare una raccolta di pezzi scelti di carattere letterario, musicale. In greco letteralmente vuol dire “raccolta di fiori».

E così grazie alla professoressa Titti Lauro abbiamo fatto un affascinante e suggestivo tuffo nel “passato”: si fa per dire, perché usiamo ancora, nel nostro linguaggio quotidiano, queste espressioni risalenti agli avi che hanno abitato la nostra terra, parole che hanno viaggiato nel tempo fino a noi.

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Mario Menini

Ricerca glottologica precisa e preziosa. Restituisce senso e nobiltà alla lingua di Nea polis.

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