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Lettere a uno psicanalista

del dott. Francesco Frigione

 

Gentile professore,

ho da poco compiuto i quarant’anni; sono una donna divorziata, madre di due figli. Lavoro con impegno e mi occupo di loro, credo adeguatamente. Con il mio ex marito, dopo un doloroso periodo di scontri e rivendicazioni, i rapporti si sono assai rasserenati, e devo ammettere che lui si sta dimostrando un buon padre e un uomo corretto, rispettoso dei patti.

Ciò premesso, devo purtroppo riconoscere che la mia vita di donna è insoddisfacente sul piano affettivo: malgrado abbia vissuto varie situazioni sentimentali, tutte si sono rivelate, alla fine, sbagliate e deludenti. Avverto fortissima la mancanza di un compagno al mio fianco, qualcuno con cui condividere le esperienze positive e negative, e persino la noia della routine quotidiana.

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Ho cercato di modificare il mio approccio agli uomini, e in generale al mondo, con la pratica spirituale buddhista. Certamente ne traggo vantaggio, ma si tratta solo di piccoli passi. Invece, più trascorre il tempo e più provo  l’urgenza di arrivare a una svolta, che, in verità, non giunge mai. Ci sono momenti in cui divento preda di una sottile disperazione.

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In effetti, non è la prima volta nella mia vita che mi succede di sentirmi così avvilita, senza neppure che gli altri, dall’esterno, se ne accorgano. Mi sembra, anzi, di portarmi dietro questa sensazione da sempre, solo che non ho mai avuto la possibilità di soffermarmici e di affrontarla, presa, come sono stata, da mille impegni e infiniti obblighi.

Ammetto che ho pensato molte volte alla possibilità d’iniziare una psicoterapia, e in particolare una psicoanalisi. Mi ha frenato, però, ogni volta la durata del percorso e l’idea della ingente spesa economica.

So, in compenso, di terapie brevi che mettono a fuoco con il paziente il problema principale e lo risolvono brillantemente. Lei mi può confermare che è funzionano?

 

 

VELOCITÀ E LENTEZZA

Lo scrittore Milan Kundera

 

Gentile lettrice,

le rispondo partendo dalle ultime righe della sua lettera, che pongono un quesito già al centro, da anni, di polemiche e di un intenso dibattito metodologico e culturale in ambito psicologico. Sarebbe assurdo pensare di poter citare anche solo le principali posizioni in questo breve spazio. Ragion per cui eluderò la trattazione “oggettiva” dell’argomento ed esporrò da subito la mia opinione personale, che, in quanto tale, è espressione di una mera soggettività e non di una verità imparziale e condivisa.

Certo è che, messa nei termini di “è meglio una terapia che dura poco e costa poco, o una che dura molto e costa molto?”, la domanda appare ridicola e retorica e riconduce a quegli esilaranti aforismi proposti, trent’anni fa, da Massimo Catalano nella trasmissione di Renzo Arbore “Quelli della notte”.

La questione è resa, di fatto, molto complessa da concomitanti del tutto personali: non solo il problema di far fronte a un più prolungato impegno economico (che, in alcuni casi, cela, in realtà, difficoltà e ritrosie del paziente a lasciarsi coinvolgere in una relazione psicologica con il terapeuta, poiché s’imbatterebbe nelle sue violente paure e nei suoi negati desideri di dipendenza affettiva), ma anche la visione stessa del proprio malessere e di cosa s’intenda per benessere esistenziale. Inoltre, bisogna tenere presente che alcune particolari organizzazioni di personalità, quali quelle schizoidi – che mal tollerano un contatto intimo sul piano emotivo – e quelle border-line, – che soffrono l’ampiezza e la continuità nel tempo di un rapporto personale – combaciano quasi perfettamente con gli assetti sociale, economico e culturale dominanti nell’odierna società massificata, atomizzata e ipertecnologica.

In questo senso la psicoanalisi classica appare effettivamente vetusta ed anche arroccata su posizioni di retroguardia, come , tra gli altri, afferma dalle pagine del libro “Oltre la passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa (2015) Miguel Benasayag, il filosofo, psichiatra e franco-argentino propugnatore della “terapia situazionale”.

In generale, però, la “psicologia del profondo” reca con sé un patrimonio immenso, che non può essere smantellato sic et simpliciter e trattato da inutile rottame. Essa parte, infatti, da una premessa etica basilare, capace da sola di riportare in auge il senso dolorosamente smarrito di un’esistenza, oppure di aiutare l’individuo a presentarsi all’appuntamento con esso, persino quando questo incontro è stato rinviato sin dagli esordi. Qual è, dunque, tale premessa?

Che, in terapia, non bisogna proporsi proprio alcun obiettivo!

So, mia cara lettrice, che lei adesso potrebbe legittimamente deridere  questa affermazione, oppure, al contrario, che potrebbe indignarsene, ritenendola una furbizia utile soltanto a spillare denaro ai pazienti, senza offrire loro in cambio neppure una promessa di “guarigione”.

Provi, però, per un istante a osservare la cosa sotto una diversa prospettiva: continuamente, noi dobbiamo giustificare la nostra presenza nel mondo tramite delle prestazioni. Ci accade a scuola, sul lavoro, nello sport, in famiglia, quasi in ogni contesto, tranne – si spera (ma non sempre è scontato) – durante gli istanti rari e preziosi dell’innamoramento e nei migliori rapporti di amicizia. La maggior parte dei nostri sforzi va, per il resto, verso delle mete che ci indicano gli altri o alle quali ci dirige un pungolo mordace, una tirannia interna,  senza pietà né requie.

Anche quando ci rendiamo conto di essere vittima di una forzatura brutale recata alla nostra natura intima e profonda, di sottostare a una coercizione che ci causa un’intollerabile sofferenza, noi cerchiamo di liberarci delle difficoltà come se fossimo delle macchine che devono andare dal meccanico per fare sostituire dei pezzi rotti, ci consideriamo simili a dei mezzi meccanici che attendono soltanto di tornare in pista al più presto, una pista in cui rendere al massimo, anche se il suo traguardo si sposta continuamente in avanti. Oppure indietro, alle nostre spalle, nella struggente nostalgia di un passato irrimediabilmente perduto.

I sintomi, in questa prospettiva produttiva totalitaria e di matrice neoliberista, acquisiscono pertanto il significato di ostacoli da svellere, divengono segni di una incapacità d’adattamento necessario, piuttosto che forme di espressione di un oscurato, ammutolito e torturato.

La terapia del profondo, al contrario, pone al centro del proprio discorso l’ascolto, soprattutto l’ascolto di ciò che un Io dispotico (in quanto a sua volta schiavo e marionetta di forze che ignora) tende a mettere da parte, di ciò che solitamente viene tacitato, eluso, escluso, allontanato. L’ascolto, fiduciosamente praticato in analisi, sostiene ed edifica nel paziente il ponte tra Io e non-Io, tra mondo visibile (la“superficie”) e mondo invisibile (“il profondo”), tra adesione letterale alle cose e interpretazione metaforica e poetica della realtà, tra radici e orizzonti del processo di individuazione. Un’azione tanto lenta e meticolosa – che non conosce tempo, ma che agisce nel tempo e realizza il tempo autentico della personalità del paziente – conduce  spesso a una fioritura ampia e autentica e una ristrutturazione della personalità, rendendola sinceramente partecipe del mondo, capace di decidere per sé e d’incidere su di esso in base a parametri originali.

Velocità e lentezza si alternano nella terapia, allora, a seconda delle effettive necessità individuali e sottratte al delirio del preconcetto: a volte si stagna per mesi in un punto, senza che apparentemente (ma solo apparentemente) nulla muti e poi, di un tratto, si assiste con meraviglia a un balzo repentino verso un diverso approccio alle emozioni, ai pensieri, ai fatti, alle persone. Questi rallentamenti e queste accelerazioni concernono , con tutta evidenza, il lavoro di costruzione di nuove tessiture esistenziali, un lavoro narrativo che ha bisogno di stringere alcuni nodi e scioglierne altri, attraverso la duplice azione del ricordo e dell’oblio, nel segno dello stile sempre più sicuro e personale mostrato dal paziente. Ecco, in proposito, le parole illuminanti e poetiche adoperate dal grande scrittore boemo Milan Kundera ne “La lentezza” (Adelphi, Milano, 1995 – p. 45):

«C’è un legame segreto tra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi, invece, vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo.

Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari. Il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio.».

 

 Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma in una scuola di specializzazione per psicoterapeuti, formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma e a Ischia. Ha fondato e dirige il webzine e il quadrimestrale internazionali “Animamediatica”.

Contatti

E-mail: francescofrigione62@gmail.it

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