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Lettere allo psicanalista

Gentile Professore,

sono una “divoratrice” di libri. Sin da quando ero bambina ho trovato in essi ristoro, conforto ai miei piccoli e grandi dolori, stimolo all’immaginazione. Forse il mondo intorno mi è sempre apparso un po’ minaccioso, inquietante, e nei libri vi ho potuto leggere il codice e i volti, incontrandovi specchi delle mie emozioni più profonde, senza riceverne in cambio risposte traumatiche. Associo la lettura al piacere e molto meno allo studio, poiché la scuola e l’università poco hanno fatto per stimolare la mia curiosità, ma, talvolta, semmai, mi hanno reso più incerta e impacciata nel dar corso ai miei gusti, alle mie idee.

Entrando ieri nella libreria Imagaenaria, ad Ischia Ponte, per acquistare un romanzo, ho notato esposta in vetrina la locandina con il programma delle sue prossime conferenze, che trattano da un punto di vista psicologico argomenti di poesia e letteratura. Seguo con attenzione la sua rubrica del giovedì sul Golfo e ho finalmente deciso di rompere la mia timidezza e scriverle, per rivolgerle una domanda forse ingenua: si può davvero fare di un piacere il proprio lavoro?

 

LA POESIA DELLA PSICHE

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Testa di Ulisse, Gruppo di Polifemo a Sperlonga

 

Gentile e delicata lettrice,

la sua lettera denuncia senza dubbio una acuta sensibilità e quell’amore per la cultura che nasce dal sentimento e cozza con ogni artificio intellettualistico.

Non tutti riescono a ricavare dal proprio lavoro un piacere, oltre che il pane per vivere. Spesso la dissociazione tra quello che facciamo per assicurarci  il sostentamento materiale e ciò che desideriamo realizzare nel nostro intimo ci procura grande pena e amarezza. Nella storia, però, abbiamo numerosissimi nomi illustri che hanno conciliato occupazioni professionali anonime, e a volte persino modeste, con una vita culturale ricchissima: l’avvocato Frank Kafka, impiegato alle Assicurazioni Generali, a Praga, e il geometra Salvatore Quasimodo, assegnato agli Uffici del genio Civile di Reggio Calabria, sono i primi esempi che mi sovvengono in campo letterario.

Ciò nonostante l’ambizione a vivere creativamente il proprio impegno quotidiano, quale esso sia, corrisponde a un desiderio che va ben oltre il campo artistico e riguarda ciascuno di noi. Questa possibilità dipende sia dalle mansioni oggettive che ci tocca espletare, è evidente, sia dalla qualità con cui sperimentiamo le cose. Questa qualità è strettamente connessa alla capacità d’imprimere il nostro stile a quanto facciamo e, contemporaneamente, di farci toccare l’anima dalla materia (concreta o astratta) con cui lavoriamo.

È chiaro, cioè, come mestieri e professioni che lasciano pochissimo spazio alla variabilità soggettiva rappresentino un’indubbia castrazione della personalità, ma è anche vero che ci sono altrettanti ambiti potenzialmente interpretabili in modo più originale, nei quali è la pigrizia mentale del singolo o l’errata cultura dell’organizzazione a rendere tediosa e ripetitiva l’attività. Un’analogia possibile è quella che scorge la differenza tra il “turista” e il “viaggiatore”: il primo, per quanto possa visitare in lungo e in largo realtà sconosciute, ricondurrà costantemente ogni nuova esperienza alle sue aspettative e le inquadrerà negli schemi mentali prestabiliti. Il suo grido di battaglia è “Io ci sono stato!”, e testimonia di un bisogno di conferma  dell’invariabilità della propria condizione; il secondo, invece, durante il percorso, vive uno stato di porosità, consente agli inevitabili imprevisti di sorprenderlo e alle dissonanze di modificare la sua percezione del mondo. Insomma, è aperto all’impatto dello sconosciuto e prende profondamente gusto alla meraviglia.

In qualche modo questo è il discrimine che corre tra “disposizione poetica” nei confronti dell’esistenza e “atteggiamento prosaico”.

Il campione archetipico della tensione verso la dimensione sconosciuta della vita umana è l’eroe omerico Ulisse. In effetti, se noi non ci atteniamo alla lettera delle sue peregrinazioni, possiamo identificare il labirintico percorso  che il Nòstos, il ritorno, gli impone per mare, come il necessario perdere la rotta di chi ai avvia alla conoscenza più profonda della propria natura interiore e della realtà del mondo.

Questo disorientamento e riorientamento comportano una maturazione lenta e difficile, una rivoluzione dell’assetto mentale, attraverso vicissitudini dolorose ma anche momenti di autentica felicità; e si basa sulla capacità di “perdere”, di “abbandonare” e “abbandonarsi”, piuttosto che di “conquistare”, di “annettere” territori all’Io.

L’Odissea lo illustra perfettamente quando mostra il suo protagonista, sfuggito alla mostruosità antropofaga di Polifemo e dei Lestrigoni (in seguito scamperà anche alla voracità delle Sirene e di Scilla e Cariddi) e alla tentazione del non ritorno offerta dai Mangiatori di Loto, confrontarsi con la seduzione maligna di Circe, traducendola, però, in un’occasione erotica di fiducia e conoscenza. Sarà Hermes, lo psicopompo – il dio dei misteri, l’accompagnatore delle anime nell’oltretomba e la potenza che mette in comunicazione il mondo divino con l’umano – ad aiutare l’eroe insegnandogli come affrontare le insidie della Maga e gli offrirà da mangiare la leggendaria erba Moly, dal candido fiore e le oscure radici, il simbolo dell’unione degli opposti: giorno/notte, nascita/morte, donna/uomo, umano/divino ecc. Quello sarà l’antidoto ai filtri di Circe e l’antefatto dell’amore di Ulisse con la creatura divina.

Circe, nipote di Helios, il Sole – la forza che, per gli antichi, agisce ai margini di ogni cosa –  schiuderà a Ulisse, in virtù dell’Eros che per la prima volta la sorprende, i segreti per penetrare nell’Ade, il Regno dei Morti, uscendone indenne e psichicamente trasformato. Ulisse, di fatti, non apprenderà dalla bocca del mitico sacerdote tebano Tiresia, lì interrogato, soltanto il proprio futuro, ma l’essenza della sua personalità: gli verrà rivelato che il suo viaggiare non è soltanto la conseguenza di una maledizione, che gli nega forzatamente la patria, ma forma la sostanza più profonda della sua personalità e il richiamo verso un continuo “Altrove”, a cui egli seguiterà a puntare anche dopo il riapprodo a Itaca.

E questo, dunque, è il segno del nostro destino di esseri senzienti e coscienti, armati di desiderio, di amanti della conoscenza, di creature inscritte nel segno “poetico” di Psiche.

 

 

 

 

 Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma in una scuola di specializzazione per psicoterapeuti, formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma e a Ischia. Ha fondato e dirige il webzine e il quadrimestrale internazionali “Animamediatica”.

Contatti

E-mail: francescofrigione62@gmail.it

 

 

ULISSE, CIRCE E L’ERBA MOLY

(per tacere di Ermes)

Una conferenza di psicologia analitica sul libro X dell’Odissea

tenuta da Francesco Frigione

Venerdì 19 Febbraio 2016, H. 18:00 – 20:00

LIBRERIA IMAGAENARIA

Palazzo dell’Orologio – Via Luigi Mazzella, 46-50 – Ischia Ponte

Ingresso libero

 

Circe, la divina seduttrice, la “lupa” che riduce gli uomini alla schiavitù degli istinti, nasce dalla cosmica unione del Sole con la Notte. Con l’aiuto di Ermes e dell’erba Moly, Ulisse resiste all’incantamento della maga, che, sconfitta, gli indicherà il percorso agli Inferi. Qui l’eroe conoscerà il proprio destino e i più profondi misteri della natura umana. Un racconto iniziatico sul  lavoro creativo della metafora nel percorso di individuazione psichica.

 

Libreria Imagaenaria:

Tel/Fax:  081 985632 – E-mail: info@imagaenaria.com

 

 

ABBANDONO, VERGOGNA E COLPA

SEMINARIO TEORICO-ESPERIENZIALE

 

 

Sabato, 20 febbraio 2016

  1. 14:45 – 17:45

 

La risposta è nascosta in quel gioiello della musica pop che è Yesterday, dei Beatles, una canzone che racchiude nelle sue spire il legame segreto tra abbandono, colpa e vergogna. Partiamo da lì per narrare come la perdita si trasformi in una sofferenza che tocca l’anima, lacerandola.

https://youtu.be/Ho2e0zvGEWE

 

Eppure è nella stessa malinconia che il mondo desolato ritrova un nuovo senso e la vita torna a germogliare, per il miracolo dell’Eros.

Segue il gioco psicodrammatico, grazie al quale i partecipanti possono aprirsi alla propria verità profonda sul tema ed elaborarla con creatività espressiva nello spazio di gruppo.

Conclude il lavoro la condivisione di esperienze e la lettura psicologica che il conduttore offre del materiale emerso.

 

 

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