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Lettere allo psicanalista – Una risposta al bullismo

Gentile Professore,

sono una mamma separata e ho scoperto di recente il motivo per cui mio figlio, un ragazzo di tredici anni, fino a qualche tempo fa allegro e amante dello studio, negli ultimi tempi non vuole più andare a scuola e si è ritirato in uno stato di torpore, di tristezza e depressione; ora so perché appare tanto demotivato: un gruppetto di suoi compagni, capeggiati da un ragazzo molto aggressivo, ha preso a tartassarlo, pretendendo che lui gli consegni i soldi per la merenda, gettandogli i libri per terra, deridendolo con pesanti sfottò e facendo passare per scherzi veri atti di violenza, come schiaffi, sgambetti e, a volte, persino pugni. Anche altri ragazzi sono stati ugualmente presi di mira in passato e hanno taciuto, cercando semplicemente di sfuggire alle angherie. Nessuno ne ha parlato con gli insegnanti. O forse anche questi hanno fatto finta di non sapere.

La cosa che più m’indigna e mi fa disperare è che mio figlio mi ha riferito che sia gli altri compagni di classe, maschi e femmine indistintamente, assistono a questi attacchi nei suoi confronti, senza mai intervenire per impedirli. Anzi, alcuni lo irridono come un debole incapace di difendersi. Al danno subentra la beffa, dunque, e in lui è cresciuto un senso di vergogna e inettitudine. Ne è riprova il fatto che, solo dopo due mesi, ha trovato il coraggio di rivelarmi la causa della sua sofferenza.

         Naturalmente, sono corsa a parlare con la Preside e con i professori: tutti mi hanno assicurato il loro appoggio. Però, resto preoccupata e vedo mio figlio fragile e spaventato, timoroso di tornare in classe. Dice di aver paura di essere considerato una spia e uno che si fa proteggere dalla mamma.

         Le chiedo: che devo fare?

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UNA RISPOSTA AL BULLISMO

 

Gentile lettrice,

comprendo pienamente il dramma del ragazzo e la sua angoscia di madre. Mi attendo, dopo le proteste, anche una risposta forte e priva di ambiguità da parte della Scuola, affinché si affermi con sempre maggior chiarezza il principio dell’inammissibilità dei comportamenti violenti, in qualunque forma essi si manifestino: fisicamente, attraverso le aggressioni e gli atti di conculcamento; verbalmente, attraverso le minacce, le ingiurie e i sarcasmi; moralmente, attraverso l’indifferenza e la sottile derisione nei confronti di chi è vittima, da parte di tutti gli altri attori del dramma, quali sono stati gli inerti compagni.

Sul piano collettivo, la presa di coscienza che la vittima non sia colpevole di ciò che subisce, ma che, al contrario, va difesa e sostenuta per il bene comune, resta prioritaria. Poi, però, bisogna andare oltre.

Di fatti, la luce del ragionamento psicologico investe più aspetti della questione: il primo concerne le dinamiche di gruppo. Tipicamente il gruppo è alla ricerca di un “capro espiatorio”, un portatore di vulnerabilità, e sa individuarlo con mirabile precisione in chi versa in una situazione di debolezza, per le più diverse ragioni: fisiche, mentali, economiche, di status, di mancata appartenenza alla società e alla cultura originarie del luogo o dell’istituzione  ecc. ma anche per fattori più propriamente psicologici, come la difficoltà, o l’incapacità, ad esprimere una sana aggressività difensiva nei confronti degli attacchi nocivi provenienti dall’ambiente esterno. Insomma, coloro che si coalizzano per recare offesa alla vittima cercano un varco utile all’interno del proprio gruppo di appartenenza, cercando di colpire chi si trovi ai suoi margini, per scaricare il senso di frustrazione e impotenza che loro stessi (per conto, però, si badi bene, dell’intero contesto di appartenenza) sperimentano per motivi che gli restano spesso ignoti

Il gruppo, insomma, tende a trasferire sul “capro espiatorio” il male che altrimenti avverte oscuramente riversarsi su di sé in modo ingestibile per il proprio equilibrio psichico. Non si tratta di una novità dei nostri tempi, tanto è che il celebre studioso René Girard su questo ha costruito addirittura una teoria della genesi delle società, particolarmente di quelle più antiche.

Se si vuole pensare a un esempio illuminante di tale folle situazione si pensi al magnifico film di Stanley Kubrick, “Full Metal Jacket” (1987), la cui prima parte descrive come, mediante l’addestramento militare, si trasformi un manipolo di civili una squadra di assassini schizoidi, pronti ad andare in Vietnam ed uccidere senza rimorsi nemici sconosciuti.

Nel campo di addestramento, una recluta viene subito adocchiata dal sergente istruttore come “capro espiatorio”, a causa della sua stazza fisica, che la renderebbe inetta alla guerra e di peso ai compagni. Il Sergente Superiore Hartman ne cancella addirittura il nome e lo sostituisce con l’ingiurioso appellativo di “Palla di lardo”.

Infine, il ragazzo, dopo aver subito infinite vessazioni e vendette dei compagni – i quali patiscono punizioni anche per causa sua – si trasforma in uno psicotico che mette fine alla vita del suo superiore e alla propria, in una delle scene più tremende e vibranti della storia del cinema.

Tutto ciò, naturalmente, conduce il nostro discorso alla cultura affettiva e all’ideologia dell’istituzione e della società nella quale avvengono i misfatti.

Non basta, infatti, denunziare i sintomi ultimi, dobbiamo comprendere quale è l’humus in cui si sviluppa il particolare genere di patologia che desideriamo far recedere.

Di certo, una risposta seria deve prendere in esami molti fattori, uno dei quali è, senza dubbio alcuno, la esigua competenza nel riconoscere e dare spazio ai propri vissuti psichici. Questa carenza psicologica si traduce, ipso facto, in comportamenti impulsivi, in agiti eseguiti con cieca ripetitività, stolidamente, e, in chi non se ne macchia direttamente, in connivenza, collusione, mancanza assoluta di coraggio e di iniziativa nell’impedirli.

Ribaltare la situazione non è compito che può ricadere solo sulle fragili (psicologicamente parlando) spalle dei esecutori delle condotte di bullismo e, in generale, di violenza: appartiene al dovere delle istituzioni, della comunità, della società. Di tutti noi.

Quanto a suo figlio, io penso che un lavoro di supporto psicologico, consistente, innanzitutto, nell’ascolto del trauma subito e, in seguito, nella sollecitazione a sviluppare la propria assertività, ovvero una forma più alta, raffinata e civilmente direzionata di aggressività, possa essere la risposta più utile ed efficace alla sua attuale difficoltà.

 

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