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Lettere allo psicoterapeuta

Gentile Professore,

sono la madre di un ginnasiale. L’impatto di mio figlio con il Liceo Classico è stato particolarmente duro. Posso ammettere che egli incontri delle difficoltà nel passaggio dalle medie alle superiori e non pretendo che venga approvato se non ha un rendimento sufficiente. Ciò che mi sconvolge è, però, che già dal secondo mese di scuola mi è stato suggerito dal rappresentante del corpo insegnante, per il bene del ragazzo, di prendere in considerazione il cambiamento di indirizzo. Non si è trattato di un caso isolato né di una novità. Ora, mio figlio è un ragazzo intelligente e curioso, e la scelta della scuola è stata sua e solo sua, senza alcuna forzatura: mi sono confrontata con altri genitori e molti mi hanno confermato che, tranne nobili eccezioni, quasi ovunque nei licei si ritrova la medesima mentalità. Sembra che ai docenti interessi lavorare soltanto con gli studenti che subito gli stanno al passo. Gli altri li escludono senza sforzarsi di recuperarli allo studio. La maggioranza degli allievi ha bisogno di aiuti esterni, che costano alle famiglie un notevole esborso economico. Mi pare che ci ritroviamo di fronte a un ritorno di fiamma della scuola classista da cui anni di lotte politiche e sociali sembravano averci liberato. Mi chiedo se questo sia il corpo docente a cui noi cittadini, con le imposte, dobbiamo pagare lo stipendio. 

 

ESCLUSIONE SCOLASTICA ED EROS DELL’APPRENDIMENTO

 

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Gentile Signora,

non conosco la situazione particolare di suo figlio, né ovviamente quella del liceo che frequenta. Faccio affidamento sulle sue parole e su di una certa esperienza che ho come psicoanalista e anche come formatore di insegnanti, di ogni grado.

Esistono professori bravissimi, dei quali parlerò in seguito, e basta uno soltanto di loro per riscattare i molti meno bravi e i mediocri che, in qualunque istituzione abbondano. Al contrario, paradossalmente, non esistono “studenti bravi” o “meno bravi” in assoluto: ma soltanto studenti “più facili” o “più difficili” da gestire per la scuola e per l’insegnante. Con ciò non voglio negare che esistano alunni i quali finiscono per eccellere e altri che galleggiano sempre a rischio di inabissarsi. Il problema è che anche questi sono parte di un complesso gruppo al quale vanno recuperati con tutte le forze e non esclusi per comodità, indolenza o convinzione ideologica. Ciò a cui fa riferimento rispetto a suo figlio, purtroppo, sembra effettivamente corrispondere a un meccanismo “paranoide” di espulsione, ad un automatismo che tende ad allontanare gli studenti percepiti come ostacoli all’andamento lineare del percorso didattico, in quanto essi rappresentano “la cattiva coscienza dell’insegnante”. Una specie di fantasma di Banco della scuola. Ne consegue che, molto spesso, la condizione sociale e culturale delle famiglie diventa dirimente in queste situazioni nelle quali allo studente in difficoltà non bastano le lezioni scolastiche, ragion per cui ad essi vanno impartite ripetizioni private (tenute quasi sempre da altri insegnanti di scuola, in un circuito assai perverso di alimentazione del sistema disfunzionale).

Lavorare con gli “studenti difficili” sarebbe, invece, il primo compito degli insegnanti, la loro vera ragione d’essere, la bussola della loro “vocazione”. Ammesso che ci sia una “vocazione”, ossia una chiamata profonda a quel compito fondamentale che ha nella società colei o colui che instrada al sapere. Come ricorda lo psicoanalista Massimo Recalcati, il nucleo dell’insegnamento sta nella sua dimensione erotica, la sua capacità di attrarre e di sedurre non verso la figura del docente, ma verso quella del sapere stesso, come mostra il celebre episodio di Socrate e Alcibiade narrato da Platone nel Simposio. Insomma, la scuola richiede passione, nel senso di capacità di sentire, di percepire a fondo e persino di soffrire con l’altro che è lo studente, proprio quando questi sembra implicare una sfida all’invito del docente. Il docente non deve assolutamente “fare” lo psicologo, non è questo il suo compito, ma deve “essere” psicologo, arrivando a “scomparire in aula” per far posto al momento del sapere dello studente, l’unico vero gancio per integrarlo al gruppo. Per inciso, qui si presenta un’analogia straordinaria con la pur diversa funzione dell’analista, come la suggerisce Wilfred Bion, cioè di qualcuno che scompare per istituire un presente senza aspettative. In questo tempo vuoto alligna, allora, l’Eros della conoscenza.

Ecco come un professore d’eccezione, che è un grande scrittore con un passato da “somaro”, ovvero Daniel Pennac, descrive il problema nel suo Diario di scuola: «I nostri studenti che “vanno male” (studenti ritenuti senza avvenire) non vengono mai soli a scuola. In classe entra una cipolla: svariati strati di magone, paura, preoccupazione, rancore, rabbia, desideri insoddisfatti, rinunce furibonde accumulati su un substrato di passato disonorevole, di presente minaccioso, di futuro precluso. Guardateli, ecco che arrivano, il corpo in divenire e la famiglia nello zaino. La lezione può cominciare solo dopo che hanno posato il fardello e pelato la cipolla. Difficile spiegarlo, ma spesso basta solo uno sguardo, una frase benevola, la parola di un adulto, fiduciosa, chiara ed equilibrata per dissolvere quei magoni, alleviare quegli animi, collocarli in un presente rigorosamente indicativo.

Naturalmente il beneficio sarà provvisorio, la cipolla si ricomporrà all’uscita e forse domani bisognerà ricominciare daccapo. Ma insegnare è proprio questo: ricominciare fino a scomparire come professori» (Daniel Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano 2008 – p. 55).

Un’altra immagine molto pregnante che compare nel libro appartiene, invece, a una collega di Pennac, che insegna in un luogo più che difficile, in una delle famose banlieus parigine, i quartieri periferici dove più forte allignano il disagio, la violenza e l’esclusione sociale. Lo scrittore viene invitato a rispondere ad alcune domande dei ragazzini di una classe in merito a un suo romanzo. Si aspetta un incontro di routine nel segno di quesiti “preriscaldati”, suggeriti magari dai docenti stessi. Resta, invece, totalmente sorpreso dal piglio, dalla curiosità indomabile e dalla brillantezza delle domande dei giovani. Al termine dell’esperienza, colmo di ammirazione, chiede alla collega in cosa consista il segreto di questo exploit. Lei si schermisce un po’, quindi paragona la classe a un’orchestra e mette in luce come il successo dipenda da un dosare le proprie aspettative e nel sapere includere ciascun elemento di quest’orchestra facendo in modo che suoni il suo strumento opportunamente e al momento giusto. Esiste, però, un’altra scuola, che è quella dominante poiché serve un’ideologia dominante, tesa all’esclusione. Essa, nel silenzio e nella colpevole collusione della società, procura danni giganteschi. Dice la professoressa:  «”Il solo problema è che vogliono farci credere contino solo i primi violini”. Una pausa: “E alcuni colleghi si credono dei Karajan che non sopportano di dover dirigere la banda del paese. Sognano tutti la filarmonica di Berlino, è comprensibile …”» (Ibid., p. 108).

 

 Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma in una scuola di specializzazione per psicoterapeuti, formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma e a Ischia. Ha fondato e dirige il webzine e il quadrimestrale internazionali “Animamediatica”.

Contatti

E-mail: francescofrigione62@gmail.it

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