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L’isola di Lenù, a Ischia ‘L’amica geniale’: ecco cosa vedremo stasera in tv

Gianluca Castagna | Ischia Quando il vaporetto si staccò dal molo, mi sentii terrorizzata e insieme felice. Per la prima volta andavo via da casa. Facevo un viaggio, un viaggio per mare. Il corpo largo di mia madre, insieme al rione, alla vicenda di Lila, si allontanò sempre più. Fino a perdersi”. La quattordicenne Elena Greco si imbarca così sul vaporetto “Cappabianca” e raggiunge l’isola d’Ischia per la vacanza che le ha procurato la maestra Oliviero («Sei pallida, ti devi fare i bagni, prendere un poco di sole». «A Ischia?», «Sì, a Ischia», si sente alla fine dell’episodio precedente, finora il più debole).

“L’isola”, sesta puntata della serie tv “L’amica geniale, andrà in onda stasera sulla rete ammiraglia Rai, ma noi del Golfo l’abbiamo vista in anteprima e ve la raccontiamo (i nemici giurati dello spoiler sono avvertiti).
Un episodio circolare (finisce giusto dove comincia), ‘chiuso’ (come ogni cerchio), perché, ad di là delle ovvie aperture che l’esperienza balneare porta con sé, e a dispetto della distanza, solo geografica, dall’inseparabile Lila e dalla dure regole del rione, Lenù verrà riportata alla realtà dal grido di aiuto della sua amica assente/presente, ma soprattutto dalle regole di sopraffazione e violenza tra le quali è cresciuta, e che non l’abbandoneranno nemmeno dove si era illusa di amputare, dal corpo e dalla mente, odori, sudori e perfino cadenze verbali delle proprie radici.
Il molo di Ischia Ponte accoglie la giovane forestiera come ci hanno insegnato i cinecocomeri ante litteram prodotti da Rizzoli (quando il cinema riproduceva in bella copia la vita, e non il contrario): volete un taralluccio appena sfornato? comprate una cartolina? vi serve un hotel? (a chiederlo è Pasquale Dragon Di Costanzo).

Malgrado la timidezza (talvolta catatonica), Lenù schiva l’assedio, prende la corriera e si ritrova a Via Giorgio Corafà, borgo di Testaccio, quasi a servizio da Nella Icardo, una lontana cugina della maestra Oliviero.
Regole chiare: dormi qua, prepari la colazione e la cena per gli ospiti dei quartini in affitto, lavi quel che c’è da lavare, per il resto sei libera di fare quel che vuoi. In primis, godere della luce che investe violentemente Barano (via il broncio, «“co ‘sta luce nun puote addeventà triste»).
Una panoramica a 360 gradi dalla terrazza di Casa Nella è la soluzione registica per risolvere il fluire del tempo, dato che l’occhio dello spettatore non ha molta possibilità di andare oltre l’immagine (monte Cotto, l’orizzonte infinito a meridione, Sant’Angelo appena intravista), nè può appoggiarsi a provvidenziali punti di fuga. Per un po’ può solo immaginare. Una leggerezza vacanziera e adolescenziale che è fatta di rituali amorosi e code di pavone, lunghe nuotate e bagni di sole, lettere per vincere la solitudine e gelati sotto il Castello Aragonese. O milioni di parole fatue ma decisive, dialoghi da spiaggia sui Karamazov e Bel Ami che sgorgano come una improvvisazione ormonale, ma che hanno la precisione chirurgica del calcolo, l’escalation avvincente di un amplesso sempre interrotto dal terzo incomodo. Così ligio alla realtà, e alla vita.

Prima però bisognerebbe salutare gli inglesi e dare il benvenuto ai nuovi villeggianti, la famiglia Sarratore.
Vecchia conoscenza del rione Luttazzi, traferitasi altrove anni prima per una storia di corna e follia che stava degenerando. I Sarratore, simili a un branco di lemuri sovraeccitati, sono guidati dal capofamiglia Donato, impiegato delle Ferrovie con velleità letterarie, e intossicati dalla rabbia scontrosa del primogenito, l’adolescente Nino, anche lui con pose, pensieri e parole da intellettuale engagè (sembra uscito da “The Dreamers” di Bertolucci), ma troppo duro & puro, e in piena fase edipica, per perdonare al babbo le malefatte ai danni di un moglie che nulla vede ma tutto sa. Lenù, innamorata del ragazzo, si apre al mare della vita, nel quale scopre (finalmente) di saper nuotare.
Il regista Saverio Costanzo punta anche per l’episodio ischitano su una regia intima ma più ariosa, dai richiami meno neorealisti del solito; regia che affonda tutta la verità del racconto nel dialetto napoletano, nelle facce e nella gestualità degli attori non professionisti, ma anche di quelli professionisti (tra cui spiccano Nunzia Schiano nel ruolo di Nella Icardo, Fabrizia Sacchi in quello della signora Sarratore, ma soprattutto il bravissimo attore di teatro Emanuele Valenti in quello del mellifluo e ipocrita capofamiglia).
Le sequenze si dilatano fino alla saturazione con tempi morti e accelerazioni verbali, anse fluide e deviazioni fulminee, tentazioni al bozzetto e splendore della superficie, con la macchina da presa attaccata ai volti e ai corpi dei personaggi, spesso pedinandoli di schiena, richiamando l’esperienza della visione a una sorta di flusso voyeuristico e minimalista allo stesso tempo. Lo spettatore è dentro alle relazioni che vede sullo schermo, alle immagini, ai paesaggi, ai personaggi, ai silenzi, al fascino pittorico che il cineasta riesce a tirare fuori dal set.
Che è quasi tutto isolano, ma con una importante trasgressione.

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La spiaggia dei Maronti, il cui nome, al contrario di quanto avviene nelle pagine della Ferrante, non viene mai citato (saggiamente, aggiungerei), non è la spiaggia dei Maronti (eccetto la sequenza in notturna dove Nino Sarratore bacia Lenù). Di giorno è la spiaggia dell’Arenauta a Sperlonga. Acqua verde, fondale basso, ricca vegetazione circostante, pareti affatto tufacee. Per evitare i soliti, proverbiali (anche stantii) mal di pancia e l’immancabile coda di paglia (che parte da qua e arriva fino al rione Luttazzi), giova ricordare agli spettatori isolani che la geografia del cinema non è quella della realtà, che il cinema non si limita a raccogliere e organizzare un numero di immagini/cartolina come pure prevede ogni sogno proibito di un Ufficio del Turismo, ma le iscrive in un mondo narrativo in cui reale e irreale, ricordo e sogno, attuale e virtuale si rincorrono l’un l’altro, si scambiano di ruolo, diventando spesso indiscernibili. Non è colpa dunque de “L’amica geniale” se la spiaggia dei Maronti oggi non può più offrire su un piatto d’argento la migliore e la più logica delle soluzioni possibili per un racconto ambientato alla fine degli anni ’50.
Certo, la spiaggia occupa molto spazio nell’episodio. Accadono lì molte cose: si nuota in mare, ci si adagia, ci si smarrisce gioiosamente, le traiettorie dello sguardo incrociano i giochi dell’amore e del caso, mentre i tentacoli di Donato Sarratore si allungano sempre più verso l’ingenua Lenù.
Pazienza, dunque; accontentiamoci di una breve ma deliziosa sequenza nei canyon di tufo che da Cava Scura portano a via Iesca (Serrara), ‘segni’ non casuali della piega claustrofobica che sta per prendere il racconto e delle forze minacciose che agiscono sul nostro desiderio e la nostra paura di vedere, prevedere, stravedere. Quelle fenditure nella terra che sembrano inghiottire Lenù con tutti i Carratore (eccetto Nino, già pronto a fare disastri altrove, perpetuando così la vanità egoista e speculare del padre) sono come le condotte di ventilazione lungo cui passano l’aria, le incognite, l’ansia, l’erotismo, il mistero, l’emozione, le chitarre, le voci, il silenzio, la liberazione del desiderio. La vita, appunto.

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Anche quella di Lila. Assente (per buona parte dell’episodio), ma sempre presente. E’ l’ombra di un fantasma che si frappone tra Nino e Lenù sotto il Castello, quando lui le ricorda l’antica infatuazione, ma in forma di triangolo («mi piacevi moltissimo, credevo ci saremmo fidanzati, che saremmo stati sempre insieme, tutti e tre: io, tu e la tua amica»). Lila è il deux ex machina per (ri)portare a casa Lenù, sottraendola all’insidioso Eden ischitano con una lettera che il postino (local cameo di Giovanni Arcamone) le consegna personalmente. Prima, però, l’ultimo assalto di Sarratore senior: di notte, mentre la ragazza finge di dormire e la mano dell’uomo, con le sue parole fabbricate ad arte, si insinua tra la carne della giovane adolescente dandole appuntamento per la sera dopo.
Non resta che la fuga. Un’altra. Perché dietro la veste da romanzetto rosa, di quelli da leggere sotto l’ombrellone tutto d’un fiato, “L’amica geniale” nasconde qualcosa di ben più profondo, che ha a che fare con la storia culturale, anche violenta, gretta e maschilista, del nostro paese. Con il cuore appassionato, ma anche cattivo, di certe irrinunciabili amicizie che durano tutta una vita. Quelle che ci influenzano, ci completano e ci fanno crescere, ma che ci possono anche annientare, soprattutto quando c’è di mezzo la genialità che, lo sappiamo, è materia infiammabile, poco facile a trattarsi.

“L’isola” diventa un’altra prigione da cui scappare. L’episodio termina esattamente dov’era iniziato. Davanti al mare. La sagoma del Castello Aragonese, bellissima e spettrale, ieratica e indifferente, illuminata da un livida luce sinistra, accentua i toni di una realtà amarissima.
Ancora più dura (e “inesprimibile”) di ciò che si vede e si subisce.

 

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