CULTURA & SOCIETA'

Lo Schiappone di Barano E la chiesa di Montevergine

Devozione popolare e tracce recenti di un’antica festa campestre

Di Francesco Mattera*

Spesso ho avuto modo di riflettere sul significato della parola tutta ischitana schiappa, con la quale si figura il versante di una collina terrazzata. Ho consultato diversi dizionari della lingua italiana, tra cui il Devoto-Oli, il Treccani ed altri minori, non trovando nessuna corrispondenza con tale nostrano significato. Quello più attuale ( oltre quelli desueti di antico impiego) nell’italica lingua ci restituisce l’immagine di una persona maldestra, ad esempio, in una pratica sportiva:“Sei una brava persona, ma nel gioco del calcio sei una s.!”, “Non darti tante arie, ché a poker sei una vera s.!”, e così via di seguito. Ho chiesto anche il soccorso linguistico dell’Accademia della Crusca, via Internet, ma ancora non ho ricevuto alcuna risposta. Sta di fatto che sulla nostra isola, e segnatamente nei comuni di Ischia e di Barano, tale parola trova ancora un discreto impiego nell’accezione localistica.

E, nel delineato contesto linguistico paesano, Schiapppone è una conferma che convalida pienamente il significato che da sempre gli è stato attribuito da noi ischitani. Tralasciamo qualsiasi tentativo etimologico, altri potranno, se del caso, darci lumi in proposito. Ma veniamo senz’altro allo Schiappone, a questa frazione del comune di Barano abbarbicata sulla collina posta di fronte alla Molara (ad ovest) ed a Chiummano (a sud), ed il cui territorio si spinge (con diverse altre denominazioni accessorie) fino al contrafforte roccioso del Monte Vezzi ed alla rupe tufacea della Scarrupata. Perché il superlativo di schiappa? Certamente non per la dimensione del territorio, ma piuttosto per la ripida e lunga salita che occorre percorrere per giungervi, fino agli anni sessanta del novecento segnata da ampie gradonate selciate con pietra lavica. Dominio quindi di asini e muli per le necessità di trasporto, e solo di gambe e piedi per gli umani! Un luogo, dunque, molto isolato e oggi un tantino affrancato da tale condizione per la strada principale resa carrabile man mano nel tempo, fino a divenire piuttosto comoda anche nella sua parte più addentrata verso monte. Un villaggio, più che un paese, agricolo nell’accezione più piena della parola. Senz’altro poverissimo e tra i più poveri dell’intera isola e del comune di Barano, fino all’avvento del turismo che ha portato benessere per tutti, ed al declino inevitabile delle attività agricole. Il nucleo abitativo principale è sempre stato incentrato intorno alla chiesa dedicata a Maria S.S. di Montevergine, posta proprio al culmine del pendio che taglia la collina nella sua linea di massima pendenza. Ma, appena superato il Santuario mariano (una delle chiese isolane consacrate ai Sacri Uffici in occasione del Giubileo del 2000) nelle campagne circostanti, più accessibili e meno ripide, anzi con ampi tratti anche pianeggianti , numerosi insediamenti contadini vengono realizzati con rustiche case costruite per lo più con le pietre del Vezzi e con le tipiche volte a vela costruite con le pomici cavate dalle grotte della Scarrupata alta, di Ferrazzo e Ferrazzuolo e ovunque vi fosse una vena di lapillo bianco. Il villaggio conosce anche dei momenti di relativo splendore, soprattutto lontano dalle grandi guerre e dalle crisi economiche italiane e mondiali (ad es. la grande recessione del 29).I periodi più floridi coincidono proprio con la costruzione di nuovi insediamenti rurali: semplici case, cantine e cellai cavati nel sottosuolo tufaceo semicoerente (maschione), stalle per asini e muli, porcilaie, fossi per conigli, cisterne interrate, ecc. I cognomi più diffusi sono ancora oggi Di Iorio, Buono, Boccanfuso, Di Meglio, D’Acunto, Capasso. Il villaggio perde la sua fisionomia, si spoglia di persone, di intere famiglie, in occasione delle grandi correnti migratorie verso il Sud America, gli Usa, l’Australia, culminate negli anni delle grandi guerre (1° e 2° conflitto mondiale). Molte case vengono abbandonate, tanti fertili terreni coltivati divengono preda di felci, rovi, canne, e quindi di incendi ricorrenti nel periodo estivo, e non solo. Oggi una timida ripresa che diventa più importante soprattutto per il recupero delle antiche abitazioni abbandonate e pericolanti, ma anche di tanti terreni che vengono ricoltivati. Non v’è più lo spirito del villaggio originario, rinfocolato, prima, dalla necessità di rompere un isolamento forzoso con un’aggregazione di tipo solidaristico e confraternitario tipico delle società contadine. Ma certamente più vita sì! Tante famiglie oggi ripopolano lo Schiappone, e tante sicuramente se ne costituiranno negli anni a venire e chissà che non si recuperi quell’identità in gran parte perduta del passato.

LA DEVOZIONE POPOLARE PER LA MADONNA DI MONTEVERGINE

In una bellissima pagina de la “STORIA DELL’ISOLAD’ISCHIA” (Eremo di Montevergine, pagg. 480-482), Giuseppe D’ascia tratteggia in maniera mirabile la devozione riservata dal popolo dell’isola d’Ischia alla ricorrenza della nascita di Maria che cade l’8 settembre. Prima però descrive il luogo ed il modo di raggiungerlo e da ragguagli sulla storia della costruzione della chiesa e dell’annesso eremo con relative cellette. Notizie più precise si possono trovare nel volume BARANO D’ISCHIA- storia (G.G. Cervera, A. Di Lustro, 1988, edizione a cura del Comune di Barano, fuori commercio), pagg. 19,20,21. Dai due testi apprendiamo che la chiesetta e l’eremo furono fatti edificare intorno alla metà del cinquecento dai fratelli Ottavio, Raffaele e Luigi Russo (erroneamente citati dal D’Ascia come ROSSI) , che avevano ereditato dal padre un vasto tenimento agricolo dal Vezzi a Chiummano, incluso quindi lo Schiappone. I fratelli Russo morirono di peste nel 1656. Un’altra famiglia importante che successe nel tenimento fu quella dei Siniscalchi. Intanto, grazie anche a diversi eremiti che conducevano sul posto vita ascetica e solitaria, la chiesetta diventa via via il fulcro di una genuina devozione religiosa con grande partecipazione e affluenza da tutta l’isola d’Ischia, proprio in occasione dell’8 di settembre. La tradizione, ancora oggi conservata,seppure in misura minore rispetto al passato, vuole il pellegrinaggio da tutti i comuni dell’isola verso la chiesetta. Oggi più che altro dalle prime ore dell’alba dello stesso giorno, nel passato invece già dal giorno 7 precedente, per giungere a tempo per i primi riti mattutini, con grande concorso di popolo. Il Villaggio, di solito tranquillo e silenzioso, specialmente nel passato, si animava in maniera incredibile con grande tripudio della più varia umanità festante. Io stesso, da bambino, non facevo conto della sveglia programmata dai miei intorno alle tre del mattino perché l’attesa maturata già nei giorni precedenti non mi faceva dormire quella notte. Il popolo orante si avvia alla chiesa e nel percorso ingrossa le sue fila per i fedeli che si incrociano ai bivi delle strade. Anche da Procida giungono pellegrini. Sbarcano di solito ad Ischia Ponte provenienti dalla Marina Chiaiolella, con gozzi e barche a vela prima, con motobarche più recentemente. Salgono per via Puzzulana, percorrono la strada per S.Michele e S.Antuono, scendono ai Pilastri e proseguono per la Molara. Da qui poi verso l’ambita meta, per il ripido pendio dello Schiappone fino alla Chiesa.

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LA FESTA CAMPESTRE E LE SUE CURIOSITA’

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E’ il D’Ascia che la descrive splendidamente. Vi consiglio quindi la sua lettura integrale. Era, quella, la stura festosa del compimento del duro lavoro dei campi, in attesa della imminente vendemmia. S’erano immagazzinate le provvigioni per l’inverno: fave e piselli secchi, granturco, fichi anch’essi secchi, noci e nocciole, piennoli e bottiglie di pomodoro , salsa salata, fieni e paglie per gli animali, e tanto altro ancora. Sul percorso in salita e nel villaggio, lungo la strada e anche altrove, le cantine terranee divenivano osterie occasionali che già dall’imbrunire del 7 settembre ricevevano torme di uomini in festa che indugiavano lungamente nel pasteggio di conigli alla cacciatora, carne alla brace, spighe di granone lesse o abbrustolite , il tutto lautamente bagnato dal vino delle botti delle stesse cantine dei contadini del luogo divenuti per l’occasione osti e cuochi d’eccezione. Altre prelibatezze erano le seguenti: Le percoche a fette nel vino, i fichi d’India multicolori esitati spesso con la cosiddetta appizzata che consisteva, dietro il pagamento di un prezzo modesto, nel far cadere verticalmente un coltello appuntito nel cesto dei frutti, avendo diritto a consumare tutti quelli che al ritiro del coltello rimanevano attaccati alla lama. Il rischio si concretizzava quando l’appizza ti dava come risultato zero frutti! Ma si reiterava nell’innocente azzardo, con più foga e speranza! Alla folla festante si univano commercianti ambulanti e personaggi popolari. Tra questi qualcuno ricorda una donna chiamata Chiarina la Chianchéra, macellaia ad Ischia Ponte, ma con legami familiari con lo Schiappone. Sembra che in occasione della festa aprisse anch’essa una sorta di osteria sulla salita, dove serviva, tra gli altri, la sua ottima carne. Un’altra curiosità erano gli zingari che dalla sera precedente si accampavano in piccoli slarghi del percorso, già all’inizio, appena lasciata la Molara e nel cosiddetto Bosco Martino. Allestivano piccole officine dove lavoravano ferro battuto, rame, legno, per trarne treppiedi e altri arnesi per il fuoco, mestoli, caldaie, tegami, roncole, ecc. Altri ancora costruivano piccoli giochi per bambini , come trombette, fischietti, ecc. Era un modo come un altro per i contadini dell’isola di unire sacro e profano. Devozione religiosa, festa campestre, acquisti di attrezzi utili. Una personalità di spicco allo Schiappone è stato senz’altro Don Luigi Di Iorio** (primo parroco della neonata parrocchia , nel 1953, e poi fino al 1969), sacerdote ed educatore instancabile. Persona di grande carisma, prese a cuore l’elevazione sociale, culturale ed economica del villaggio di cui era il punto di riferimento più importante in assoluto. Tanti ragazzi tolti dalla strada: oratorio e sport! Soprattutto il calcio. Fece allestire un campetto di calcio in un terreno di proprietà della chiesa, giù, sul falsopiano soprastante la croce, all’altezza del bivio con il Terone del Vatoliere. Qualcuno ancora ricorda questi ragazzi vestiti da piccoli preti che di domenica pomeriggio si recavano allo stadio Rispoli, per assistere alle partite dell’Ischia, dall’alto di un promontorio roccioso o addirittura appollaiati su un albero di pino, perché non c’era modo, per la povertà di mezzi, di acquistare i biglietti d’ingresso . Il segno lasciato nella comunità da D. Luigi ha trovato la sua riconoscenza nella intitolazione a suo nome dello stadio comunale di Barano in località Pianole della contrada Testaccio. Fu forse sotto di lui che lo Schiappone perse definitivamente ciò che era rimasto dell’aura dell’antico eremo. Ciò avvenne quando si fece promotore di eliminare le alzate delle antiche gradonate per rendere carrabile la strada fino alla chiesa. I tempi lo esigevano. E lui, forse, lo comprese prima degli altri! Per concludere un’ultima curiosità: la sirena che con il suo fischio lunghissimo scandiva le ore più importanti della giornata a favore soprattutto dei contadini impegnati nel lavoro dei campi, la più parte dei quali non si poteva permettere un orologio da polso o da taschino. La povertà assoluta fece divenire conveniente questa soluzione al posto della più costosa campana e orologio da campanile. La sirena ha funzionato fino alla fine degli anni settanta, poi è venuta la campana. Che dire oggi dello Schiappone, della sua chiesa, della sua festa ? Sarebbe opportuno mitigare l’effetto estetico negativo prodotto da orribili reti metalliche paraterra sistemate ai lati della strada, ad esempio facendole rivestire con piante rampicanti. Non male sarebbe l’idea di sostituire l’asfalto (orribile ed inefficace !) con un selciato di pietra lavica. Come pure nobilitare i muri di sostegno laterali al vecchio ingresso alla chiesa rivestendole di pietra locale. Il messaggio è per l’Amministrazione Comunale di Barano. Per quanto riguarda la chiesa, recentemente è stata ristrutturata nelle facciate. Pur positivo in termini di conservazione, quel restauro appare troppo spinto, tanto da sembrare una nuova costruzione. Occorre fare più attenzione a conservare le tracce del passato, e quindi la storia del luogo. La festa: Va bene così ! Non possono che essere gli schiapponesi ( !?) i protagonisti della festa. Se cresce la comunità del borgo, in tutti i sensi, potrà ricrescere e riaffermarsi anche la festa della tradizione.

*agronomo e naturalista

**D. Luigi Di Iorio , 1 /2/ 1914 –10/12/1999.

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