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Tentato omicidio, stangata dall’accusa: chiesti sei anni per Domenico Iacono

NAPOLI. Nessuna attenuante generica, e sei anni di reclusione. È questa la richiesta di condanna del pubblico ministero Ciro Capasso nel processo a carico di Domenico Iacono, accusato di tentato omicidio nei confronti di Salvatore Iacono, episodio risalente al febbraio del 2016. Nella requisitoria finale, il pm ha iniziato e concluso appellandosi alla giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione, in particolare per quanto riguarda la definizione di tentato omicidio e del rapporto col danno effettivamente cagionato alla vittima del tentativo. Giurisprudenza che ribadisce costantemente come la fattispecie del tentativo si definisca a prescindere dalle lesioni riportate. In sostanza, il reato del tentato omicidio si configura anche se il soggetto passivo (in questo caso il signor Salvatore Iacono) non si è trovato in pericolo di vita. Nel caso in questione, come molti ricorderanno, le ferite riportate da Salvatore furono provocate da un “marrazzo”, tipico attrezzo agricolo caratterizzato da una parte interna affilata. La discussione del pubblico ministero si è attestata sin dall’inizio su un nodo fondamentale: aggressione o colluttazione? I due protagonisti della vicenda, ha spiegato il pm, in epoca risalente erano anche amici o comunque intrattenevano rapporti di buon vicinato, uniti dalla comune passione per la coltivazione agricola, e titolari di due poderi contigui. Col tempo affiorarono controversie e scaramucce di confine, in una escalation che esasperò progressivamente le tensioni iniziali. Il rappresentante della pubblica accusa ha accennato alle rimostranze che Salvatore aveva espresso circa i lavori di sbancamento che il signor Domenico Iacono andava compiendo sul suo terreno, col risultato di provocare, a detta della parte offesa, una caduta di terriccio e detriti sul podere confinante. Una situazione che indusse il signor Salvatore a fare denuncia presso le forze dell’ordine. Poche ore dopo tale denuncia, accadde il fattaccio, che provocò alla vittima quindici punti di sutura al capo. Diversi testimoni sono stati ascoltati nel processo, e il pm ha citato tra gli altri il signor Maltese e la signora Trofa, tutti testi importanti, ma, ha precisato il magistrato, non di quello che è successo tra i due protagonisti, bensì di ciò che accadde subito dopo. Il casus belli fu l’incontro, o meglio lo scontro, tra Domenico e Salvatore quando entrambi erano al volante delle rispettive vetture. Il pubblico ministero ha affermato di non credere che l’urto tra le due automobili sia stato volontariamente provocato da Domenico. In ogni caso, scesi entrambi dalle vetture, ebbe luogo il “confronto” tra i due, al termine del quale entrambi si recarono in ospedale. Il pm ha rimarcato il fatto che l’imputato si imbarcò sul traghetto recandosi a Napoli, forse in un tentativo di darsi alla macchia dopo aver realizzato la gravità dei fatti. Fatto sta che, come ricordato dal pubblico ministero, le versioni delle due parti sono completamente opposte. Salvatore affermò di essere stato colpito alle spalle da una roncola, mentre Domenico sostenne di essere stato aggredito e che nell’atto di parare i colpi si difese con l’attrezzo, provocando le ferite all’antagonista. Il pm si è chiesto: «Come mai il signor Domenico aveva tra le mani il marrazzo?». L’attenzione dell’accusa si è poi spostata proprio sulle ferite riportate da Salvatore Iacono: quasi tutti i testimoni hanno parlato di una copiosa quantità di sangue che scorreva dal capo della vittima, al punto da impregnare non solo gli indumenti della parte superiore del corpo ma anche i pantaloni. Alcuni dei testi, come è noto, si offersero di accompagnare Salvatore in ospedale. Un solo testimone rese una versione differente, parlando di scarsa quantità ematica e di ferite limitate al braccio, ma il pubblico ministero ha dichiarato di non ritenerlo attendibile, non soltanto perché in contrasto con tutte le altre deposizioni tra loro concordi, ma anche perché la persona in questione è reputata molto vicina all’imputato. Dopo questa ricostruzione dei fatti, il pm Capasso è tornato ad occuparsi del rapporto tra l’arma, l’azione contestata e i danni provocati. E qui ha ribadito che, anche se di fatto il risultato dell’azione offensiva è quello che risponde alla definizione di lesioni aggravate perché la vittima non fu in pericolo di vita, tuttavia la Corte di Cassazione in una pronuncia del 2014 statuì che la scarsa incidenza del danno e delle lesioni non è idonea a escludere il tentato omicidio. Le lesioni al capo del signor Salvatore, con grande perdita di sangue, almeno un altro colpo ricevuto al braccio, supportano pienamente secondo il pubblico ministero l’accusa di reato tentato: «La vittima si è difesa scappando – ha dichiarato il rappresentante della Procura – evitando così danni maggiori». Un esempio concreto portato dalla pubblica accusa è quello della pallottola sparata con l’intento di uccidere ma che manca completamente il bersaglio, non attingendo la vittima designata: il tentato omicidio si configura ugualmente, nonostante la mancanza di danni alla persona. E qui il pm si è brevemente lanciato in una digressione sui vari tipi di dolo elaborati da dottrina e giurisprudenza, esprimendo vari dubbi su alcune figure come il “dolo alternativo”, ma poi ha ripreso le fila del discorso richiamando anche la testimonianza del consulente della difesa, il dottor Tarsitano, il quale giudicò idoneo il marrazzo come oggetto offensivo in grado di cagionare lesioni mortali, evitate da Salvatore Iacono grazie alla fuga. Il pubblico ministero ha quindi concluso ritenendo esistente la penale responsabilità dell’imputato, escludendo la possibilità di applicare le attenuanti generiche visto l’atteggiamento successivo del signor Domenico Iacono. Per questo l’accusa ha chiesto la condanna a sei anni di reclusione, e l’applicazione di pene accessorie. Il calendario delle udienze è stato rivisto: ad aprile toccherà alla parte civile e poi alla difesa formulare le proprie conclusioni. Un mese dopo, le eventuali repliche e contestualmente il verdetto del collegio della sesta sezione penale presieduto dal dottor Palumbo.

Francesco Ferrandino

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