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Maltrattamenti in famiglia, condannato a cinque anni

Si è concluso ieri mattina il processo a Rocco Di Costanzo, detenuto con l’accusa di maltrattamenti in famiglia, lesioni aggravate e continuate contro i familiari, oltre che di resistenza e minacce a pubblico ufficiale e lesioni. Il giudice Capuano non ha fatto sconti, e alla fine dell’udienza ha condannato l’imputato a cinque anni di reclusione, superando anche le richieste del pubblico ministero.  Un verdetto duro, forse anche superiore alle previsioni; di certo completamente contrario alle speranze dei congiunti, che rivestirono il ruolo di vittime e quindi di accusatori all’inizio di questa vicenda, per poi sperare in un responso sicuramente più lieve di quello emesso dal Tribunale.

L’udienza era cominciata con la richiesta, accolta dal giudice, di rendere alcune spontanee dichiarazioni da parte dell’imputato. Di Costanzo ha spiegato che la sua vita è cominciata a cambiare nel momento in cui alcuni anni fa perse il lavoro: «Mi è caduto il mondo addosso – ha dichiarato l’imputato – mentre io avevo sempre lavorato onestamente sin da giovanissimo.  Ma non ho mai messo le mani addosso a mia moglie e ai miei figli, io li amo. Sono stato descritto come una belva, ma non lo sono mai stato. Non ho mai aggredito i miei familiari». L’avvocato Raffaele Pesce, difensore di fiducia del Di Costanzo, ha poi chiesto la nullità delle trascrizioni del verbale relativo a una delle precedenti udienze, eccependone l’incomprensibilità. Il pubblico ministero si è opposto, e il giudice ha rigettato l’eccezione, spiegando che le parti avevano appena ricevuto la nuova trascrizione ordinata dal magistrato stesso, e che comunque la difesa era presente alle deposizione dei vari testimoni chiamati a comparire.

DIFESA. Subito dopo il giudice ha dato spazio alla discussione finale con le conclusioni e le richieste delle parti. Il pubblico ministero, pur invocando le attenuanti generiche, ha chiesto una condanna a tre anni e sei mesi di reclusione. È poi toccato all’avvocato Raffaele Pesce compiere l’arringa difensiva. In relazione alla più grave delle accuse, quella di maltrattamenti contro familiari e conviventi prevista dall’articolo 572, l’avvocato ha affermato l’innocenza del proprio assistito, precisando che non corrisponde a verità l’affermazione secondo cui l’imputato tornava a casa ogni giorno in stato di ubriachezza, né tantomeno egli picchiava quotidianamente i congiunti. «Gli episodi contestati emersi nel dibattimento – ha dichiarato il penalista – sono stati soltanto tre, in un arco di tre anni». Fra l’altro, è stata ricordata l’espunzione della querela della moglie dal fascicolo processuale. L’unico dato realmente accertato nel processo, ha spiegato l’avvocato Pesce, è la frequenza con cui l’imputato tornava a casa in stato di ubriachezza: tre o al massimo quattro volte a settimana. Ma tali episodi non coincidono affatto con i pochissimi episodi contestati. In merito alle dichiarazioni fortemente accusatorie rese dal figlio ai Carabinieri la sera dell’arresto, il 17 luglio scorso, secondo la difesa esse erano il prodotto della forte arrabbiatura nei confronti del padre, ma che a mente fredda sarebbero state riconsiderate fino a riportare l’episodio nella sua dimensione di diverbio. «È improponibile condannare qualcuno soltanto per uno schiaffo, altrimenti verrebbero incarcerati migliaia di genitori». L’avvocato ha riconosciuto come la conflittualità tra i due coniugi sia innegabile, anche perché l’ipotesi di divorzio era diventata concreta.

Tuttavia, gli amici di famiglia che frequentavano con una certa regolarità la casa dei Di Costanzo venuti in aula a rendere testimonianza hanno tutti confermato di non aver mai assistito personalmente ad aggressioni fisiche. I litigi, secondo la difesa, per definizione presuppongono una conflittualità paritaria tra le parti: le accuse erano reciproche. L’avvocato Pesce ha citato alcune decisioni della Suprema Corte di Cassazione, che escludono il reato di maltrattamento contro i familiari se sussiste tale paritaria conflittualità. Gli svenimenti a cui era soggetta la moglie del Di Costanzo erano dovuti solo a stress emotivo, ma non a inesistenti aggressioni fisiche. In relazione alla contestazione di resistenza a pubblico ufficiale, il penalista ha respinto l’accusa in quanto mancherebbe l’elemento psicologico del reato: durante la movimentata sera del 17 luglio, il Carabiniere si sarebbe trovato “in mezzo”, nel tentativo di interporsi tra padre e figlio, finendo per essere spintonato e riportare così una contusione, ma senza che vi fosse la volontà di nuocere. Nel chiudere la sua appassionata arringa, l’avvocato Raffaele Pesce ha ricordato al Tribunale che Di Costanzo ha già scontato sei mesi di reclusione, durante i quali è stato ovviamente lontano da qualsiasi sostanza alcolica, oltre ad aver dimostrato di essersi pentito della sua discutibile condotta che lo portava sovente all’ubriachezza. In virtù di tali circostanza, la difesa ha invocato la clemenza del Tribunale o comunque una pena mite, che potesse far abbandonare il carcere all’imputato.

Il VERDETTO. Il giudice Capuano si è riservato la decisione, resa nota poco dopo, condannando come detto il Di Costanzo a cinque anni di reclusione e al pagamento delle spese. Un verdetto a cui hanno assistito i numerosi familiari dell’imputato, accogliendo con evidente scoramento la pesante condanna inflitta dal Tribunale. Probabilmente, le contraddizioni emerse durante le testimonianze dei congiunti rispetto alle dichiarazioni rese dagli stessi  in seguito all’arresto del capofamiglia hanno influito sulla quantificazione della pena, ma per conoscere le effettive motivazioni bisognerà attenderne il deposito da parte del giudice.

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L’ARRESTO E I REATI CONTESTATI. Rocco Di Costanzo fu arrestato dai Carabinieri la sera del 17 luglio. Molteplici i capi di imputazione, a partire di quello previsto dall’articolo 572 del codice penale, recante la rubrica di “maltrattamenti contro familiari e conviventi”, in quanto l’imputato avrebbe offeso minacciando frequentemente nel corso degli anni la moglie e i figli, «quando faceva ritorno a casa nelle ore notturne sotto l’effetto di sostanze alcoliche, nonché percuotendo, schiaffeggiando e spintonando la moglie, cagionandole sovente lesioni personali; insultando e offendendo per futili motivi e sotto l’effetto di sostanze alcoliche la consorte alla presenza dei figli, nonché aggredendo con una testata al figlio, intervenuto a difesa della madre, che in tale occasione (dicembre 2016) perdeva conoscenza; offendendo verbalmente e aggredendo fisicamente la moglie, ancora una volta sotto l’effetto di sostanze alcoliche, e aggredendo il figlio maschio intervenuto a difesa della madre, che anche in tale occasione perdeva conoscenza (episodio della primavera 2017); offendendo la moglie, trascinandola con violenza fuori casa strattonandola per un braccio, nonché spingendola con violenza contro il portone di ingresso dopo che la stessa era rientrata per prendere le sue cose, nonché aggredendo il figlio, afferrandolo per il collo e stringendo con forza (circostanza risalente alla sera dell’arresto, 17 luglio scorso); maltrattava la moglie e i figli conviventi, offendendone il decoro e la dignità e ponendoli in uno stato di sofferenza morale e psichica da rendervela vita impossibile, al punto di indurli persino a modificare le proprie abitudini di vita».

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Collegato a tale accusa è l’altro capo di imputazione relativo alle lesioni aggravate e continuate nei confronti dei familiari, «perché, al fine di commettere il reato di maltrattamenti in famiglia, cagionava alla consorte lesioni personali giudicate guaribili in giorni cinque; percuotendola e spingendola con forza contro il portone d’ingresso dell’abitazione», mentre l’accusa di resistenza e minaccia a pubblico ufficiale si basava sulla circostanza di aver usato «violenza per opporsi al maresciallo maggiore S.S., all’appuntato scelto A.D.V. e all’appuntato D.P.C. mentre compivano un atto del loro ufficio consistito  nell’intervento presso l’abitazione dell’indagato in Lacco Ameno per sedare la lite familiare in corso. Nella specie: non appena i militari si avvicinavano a lui, che si trovavano fuori dall’abitazione, gridava nei loro confronti le seguenti espressioni con tono aggressivo e minaccioso: “Che siete venuti a fare, ve ne dovete andare, io non parlo con nessuno, prima di parlare con voi mi devo mettere una maglia e delle scarpe”, giunto poi, all’interno dell’abitazione seguito dai militari, puntava l’indice con fare intimidatorio nei loro confronti e proferiva le seguenti espressioni: “Che fate dentro la mia casa, ve ne dovete andare, io non vengo da nessuna parte e non parlo con voi, io sono già stato a Poggioreale e non ho paura di nessuno, vi prendo in mezzo alla strada, vi faccio male, vi spacco la testa, vi faccio vedere io”; quindi, spintonava violentemente l’appuntato dei Carabinieri contro il portone d’ingresso della propria abitazione, provocandogli dolori e una ecchimosi alla fronte». Quest’ultima circostanza ha dato origine all’ultimo capo d’accusa, quello di lesioni, per aver causato all’appuntato D.P.C. (che è stato ascoltato durante il dibattimento) lesioni personali giudicate guaribili in cinque giorni.

Francesco Ferrandino

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