CULTURA & SOCIETA'

Marco Bellocchio torna su Aldo Moro «Candidatura Oscar? Non ci penso»

Da Ischia parte la marcia de “Il traditore” verso l’Academy. Distribuito negli Usa Sony Pictures e già venduto in 80 paesi, Cina inclusa. Del Brocco (Rai Cinema): «Deciderà la commissione, ma il nostro è un film coi muscoli»

Tutti i suoi film, quale ne sia il giudizio critico, non lasciano mai indifferenti. Autore duro e puro, vigoroso e impegnato, dotato di una cifra stilistica personale, libera e assolutamente anticonformista, Marco Bellocchio fa da sempre un cinema coraggioso, di fervore civile, puntiglioso nelle analisi (siano esse sociali o antropologiche) e ricco di svolte radicali.

Un cineasta che non ha mai perso la vis polemica e la curiosità di interrogare il reale. O di esplorare, attraverso intuizioni destinate a inabissarsi e riaffiorare di continuo, la complessa realtà italiana e le strutture su cui si regge questo paese.

Con “Il traditore”, presentato in Concorso al Festival di Cannes, il regista ha affronta la figura di Tommaso “Masino” Buscetta, boss dei due mondi e primo grande pentito di mafia. Dall’arresto in Brasile all’estradizione in Italia, passando per l’amicizia con il giudice Falcone e gli irreali silenzi del maxiprocesso a Cosa Nostra, quando la criminalità ricorda al “traditore”, e all’Italia intera, che la sua sconfitta è ben lontana.
Il Buscetta di Bellocchio è un uomo angosciato dalla morte, che si guarda sempre le spalle, che si ritiene migliore e diverso da quelli che lui considera traditori, ma di fatto non lo è, come gli ricorda Falcone e come mostra lo splendido finale, segno di un senso di colpa che ha “scavato” tutta una vita.

«E’ un film molto onesto» dichiara il regista nel suo incontro con la stampa. «Ho seguito un mio sguardo preciso su una storia che bisognava raccontare con potenza senza mai esplicitarla in modo banale. Ogni soggetto di un film richiede una modulazione del proprio sguardo. Oggi, a differenza dei 20 anni, non mi pongo più il problema se tradisco o sono fedele. L’esperienza rende più liberi»

Il tormento psicanalitico, gli incubi angosciosi, il modo di utilizzare la musica, gli accenti che, liquidati gli stilemi (anche narrativi) del “mafia movie”, concedono libero sfogo all’onirico e al grottesco, marchi di fabbrica del suo cinema con la religione, la provincia, la memoria, l’autopsia sulla famiglia. Autopsia che non è mai finita: dalla prima (borghese, quindi disfunzionale, de “I pugni in tasca”, formidabile e dirompente opera d’esordio di cui è stato, suo malgrado, prigioniero per molto tempo) a quest’ultima (trina: la famiglia di sangue, quella mafiosa e quella dello Stato). Chi è il ‘Traditore’? Cosa vuol dire ‘Tradimento’? Domande universali che si possono tranquillamente astrarre dal contesto di questo film riuscitissimo, premiato anche al box office oltre ogni aspettativa. «Il successo fa piacere, non sono abituato», ammette Bellocchio. «Se correrà per l’Oscar? Non ci penso, mi occupo del ‘dopo’». E il ‘dopo”, è una serie tv. «Si chiamerà “Esterno notte”, la produrrà Lorenzo Mieli ed è nata in un momento di pausa de “Il traditore”. Tornerò a parlare di Aldo Moro, ma mentre in “Buongiorno notte” lo raccontavo dall’interno del covo brigatista, qui vorrei concentrarmi su personaggi che si trovavano all’esterno. Francesco Cossiga, ad esempio. Problematico, per alcuni dissociato, pieno di sofferenze. Mi interessa la dimensione pubblica e quella privata. Altro personaggio sarà Paolo VI. I terroristi/postini come la Faranda. E poi la famiglia, senza addentrarmi troppo in aspetti morbosi o da rivista scandalistica. E’ estremamente difficile, bisogna combinare fantasia e realtà storica. Un capitolo per ognuno di loro.» «Non riesco a trattarlo o a vederlo come un film», continua il regista. «Le serie tv hanno la cadenza di un romanzo, mi vengono in mente quelli a puntate di Dostoesvskji, devi tenere in sospeso il discorso, e poi riprenderlo la volta dopo.».

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E’ invece Paolo Del Brocco di RaiCinema a sciorinare qualche numero sul successo, per certi versi inatteso de “Il traditore”. «Lo abbiamo venduto in 80 Paesi, e negli Usa uscirà contemporaneamente in 35 città, distribuito da una major come la Sony Pictures Classic. Sulla designazione all’Oscar esistono delle regole. C’è un’apposita commissione, il titolo prescelto dovrà avere quegli elementi necessari per cimentarsi in maniera competitiva. Mi limito a dire che “Il traditore”, questi muscoli ce li ha.» «E’ un film ambizioso che riporta alla luce qualcosa che fa discutere», continua il responsabile di Rai Cinema che lo ha prodotto insieme a Beppe Caschetto e altri partner europei, «il successo dimostra che nel nostro Paese c’è una domanda di storie di qualità, una domanda forte di cinema civile. Gli italiani non sono un popolo di cinici, disperati o insensibili».
Pochi percorsi cinematografici sono stati così dinamici, innovativi, autocritici, densi di sfide inveterate come quello di Marco Bellocchio. Negli anni, si è rimesso continuamente in gioco, esplorando strade nuove e rischiando spesso e volentieri l’impopolarità, soprattutto ai tempi del sodalizio con lo psichiatra Massimo Fagioli. La forza e l’originalità dello sguardo, però, hanno sempre finito per prevalere, regalando al cinema italiano grandi pellicole d’autore: “Sbatti il mostro in prima pagina” “Marcia trionfale”, “Salto nel vuoto”, “Il principe di Homburg”, “La balia” fino ai più recenti “L’ora di religione”, apologo potentissimo sull’eterna ingerenza clericale; “Buongiorno, notte”, visionaria ricostruzione del sequestro-Moro; “Vincere”, sui fascismi mai domati.
Ma un film su Salvini, oggi, lo farebbe? «Non è una mia ossessione» rivela. «La storia ha bisogno di oggettivazione, distanza, siamo nel pieno della lotta, la politica italiana è in pieno movimento e il cinema ha bisogno di profondità. Sarei un folle a fare un film su di lui in questo momento.»
Lunedì sera, al Miramare e Castello, Bellocchio ha ricevuto il Luchino Visconti Legend Award. «Qualche anno fa ero già venuto a Ischia, mi hanno premiato alla Colombaia, la dimora isolana di Visconti, e ancora prima, al Premio Rizzoli per “Salto nel vuoto”. A12 anni vidi “Senso” a Piacenza, rimasi molto colpito da questo neorealismo operistico che a me piaceva moltissimo. Poi nel tempo ho riscoperto De Sica, Rossellini, Fellini. Quando frequentavo il Centro Sperimentale ero molto innamorato di Antonioni. Mi disse: la passione cambia. Aveva ragione. I premi, faccio parte di una generazione che li contestava. Detengo il record di cineasta italiano con più partecipazioni a Cannes senza mai vincere nulla.»

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