CULTURA & SOCIETA'

Matilde Serao e “Il ventre di Napoli”: il popolo povero e affamato del porto si salvò con i taralli

I nostri fornai, appresa la ricetta dai corrieri ischitani che da Napoli la portarono a Ischia, la utilizzarono subito sfornando anch’essi gustosi taralli.

In “Il ventre di Napoli“, di Matilde Serao, compare una dettagliata descrizione dei cosiddetti “fondaci”, ovvero le zone adiacenti al porto, dove vivevano i poveri perennemente affamati, fino a quando nel Settecento furono introdotti i taralli: i fornai non buttavano via nulla di nulla, utilizzavano fino alla fine anche lo sfriddo, cioè gli stralci di pasta lievitata in avanzo, a cui aggiungevano la “nzogna” ed il pepe in quantità ingenti. E le mandorle? Beh, furono aggiunte solo nell’ Ottocento. I taralli venivano serviti per lo più nelle panetterie, nei chioschi per strada (tuttora ci sono a Mergellina sul lungomare) ed non da meno nelle osterie con un bicchiere di vino non troppo pregiato per accompagnarli. Si inzuppavano nell’acqua di mare anticamente, “tradizione” giustamente perduta per ovvi motivi. Oggi viene degustato per lo più con la birra… è proprio il caso di dire che ‘a birra è ‘a morte d”o tarallo ! Ogni “tarallaro” doc portava con sé la sua cesta in spalla per vendere i taralli in strada ai passanti e non solo, gridando a gran voce “Taralle, taralle cavere!”.

SCRITTRICE E GIORNALISTA MATILDE SARAO SCRISSE IL VENTRE DI NAPOLI
SCRITTRICE E GIORNALISTA MATILDE SARAO SCRISSE IL VENTRE DI NAPOLI

Attualmente non esiste più questa figura ma il sostantivo viene utilizzato per designare una persona che non ha molta voce in capitolo e deve sempre sottostare a mille cose e situazioni, senza tregua. Non a caso, si usa l’espressione “me pare ‘a sporta d”o tarallaro!”. Per quanto riguarda l’etimologia ed origine del nome, ci sono varie e diverse ipotesi: alcuni dicono che derivi dal francese “toral” essiccatoio ed altri dal latino “torrere”, che significa abbrustolire. Un’altra tesi fa riferimento alla particolare forma circolare: deriverebbe dunque dall’italico “tar” che signfica avvolgere o ancora dal francese antico “danal”m che vuol dire pane rotondo. L’ultima, considerata la più attendibile, è di derivazione greca, da “daratos”, che vuol dire sorta di pane. Ecco la ricetta: Ingredienti  500 gr di farina, 150 gr di nzogna (sugna), 1 cubetto di lievito di birra da 30 gr, 200 gr di mandorle con buccia, 2 cucchiaini di pepe nero, 2 cucchiaini di sale. Procedimento:Sciogli il lievito con un dito d’acqua tiepida e aggiungilo a 100 gr. di farina, impasta, forma un piccolo panetto, incidilo a croce sulla superficie e mettilo a lievitare in una ciotola. Quando avrà raddoppiato il volume, aggiungi il sale, il pepe, la sugna (così com’è senza scioglierla) il resto della farina e tanta acqua tiepida quanto basta per ottenere un bel panetto da lavorare sopra il piano di lavoro.

Lavoralo almeno per 10 minuti e poi stacca tanti pezzetti da formare dei bastoncini grossi come una matita, e lunghi circa 15 cm. Unisci i bastoncini, attorcigliali su se stessi e uniscili a ciambella. Decorali con le mandorle e mettili a lievitare, quando avranno raddoppiato il volume infornali a 180° fino a cottura completata cioè quando saranno belli dorati. Questi taralli si conservano per molti giorni se chiusi ermeticamente. I nostri fornai, appresa la ricetta dai corrieri ischitani che da Napoli la portarono a Ischia la utilizzarono subito sfornan do anch’essi gustosi taralli.


michelelubrano@yahoo.it

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