Maurizio De Giovanni, Volver, e quel mosaico di storie
DI ENZO SALERNO
“E anche se non volevo tornare,/ si torna sempre al primo amore,/la vecchia strada dove l’eco diceva/tua è la vita, tuo è il suo amore/ sotto lo sguardo beffardo delle stelle/ che con indifferenza oggi mi vedono ritornare”. Con i versi di Alfredo Le Pera – giornalista e paroliere di celebri testi poi musicati e cantati dall’inseparabile amico Carlos Gardel, all’inizio del secolo scorso – Maurizio De Giovanni apre (e idealmente chiude) Volver; l’ultimo capitolo della trilogia romanzesca dei ‘tanghi’ (dopo Caminito e Soledad) all’interno della serie dei volumi – quattordici – dedicati alla storia del commissario Luigi Alfredo Ricciardi. Forse, piuttosto che di una sola storia sarebbe però più corretto parlare di un ‘mosaico’ di storie di vita vera e di finzione narrativa – nella cornice storica del primo quarantennio del Novecento – che raccontano morti misteriose, misteri irrisolti, amori corrisposti e tradimenti, attraverso la vicenda solitaria e travagliata del commissario Ricciardie deinumerosipersonaggi coprotagonisti (le due donne della sua vita, Enrica Colombo e Livia Lucani, la materna governante Rosa Vaglio e la sua spigolosa sostituta Nelide, il brigadiere Raffaele Maione e il femminiello ‘confidente’ Bambinella, l’amico medico Bruno Modo, la figlia Marta che Ricciardi si trova a crescere da solo, dopo la morte di Enrica). Ed è la piccola Marta il pretesto – almeno apparente – per raccontare questa nuova storia, con un significativo primo spostamento della ‘location’ che fa da cornice ai fatti: da Napoli a Fortino – in Cilento, terra d’origine della nobile famiglia Ricciardi, baroni di Malomonte – nel mese di luglio del 1940. L’Italia è entrata in guerra ma soprattutto vigono le leggi razziali e la campagna a sud di Salerno può garantire maggiore riservatezza – e una maggiore protezione – a chi ha origini ebraiche, come i due anziani suoceri del commissario e, per linea materna, la figlia. Napoli, però, non scompare del tutto: da un lato c’è il racconto della città di fatto pronta al conflitto;e che Ricciardi continua a vedere grazie alle notizie che gli arrivano dal fedele Maione, impegnato nel disperato tentativo di mettere in salvo un amico in comune. Dall’altro c’è Fortino, nel verde cangiante delle montagne cilentane, con la storia nella storia che Luigi – un uomo, un vedovo, un padre – narra prima di tutto a sé stesso: il ritorno in un luogo dove “…presto o tardi sarebbe dovuto tornare. Alla radice del suo dolore”.
Nell’affollato mondo dei personaggi che abitano i libri di Maurizio De Giovanni – si pensi almeno a I bastardi di Pizzofalcone o a Mina Settembre – il commissario è quello più longevo e, forse, quello a lui più affine. Del resto, lo stesso scrittore – anticipando qualche giorno fa l’uscita di Volver su Il Corriere della Sera – aveva ricordato di come l’uscita del romanzo lo avesse portato, di nuovo, ad interrogarsi su di lui e su Ricciardi: “e scopro di avere più risposte che domande, sfogliando le istantanee, che il cuore più che la mente mi restituisce, di questi vent’anni in cui tutti e due siamo profondamente cambiati, ognuno nel suo tempo e ognuno nel suo mondo, legati da questo filo stretto e fortissimo che ci unisce ma che ci mantiene lontani. Io Ricciardi, sapete, lo guardo vivere da una finestra, come un vicino di casa di cui si sanno molte cose ma che non si è mai formalmente presentato. E adesso che questa finestra sta per chiudersi, almeno su quella fetta della sua esistenza che ho finora raccontato, posso chiedermi che cosa siamo stati l’uno per l’altro. E che strada tortuosa e accidentata abbiamo percorso, per arrivare fin qui”. Nella buona e nella cattiva sorte – dal successo editoriale a quello teatrale e televisivo ma pure nella malattia che ha tenuto a risposo forzato per non poco tempo De Giovanni – i due hanno camminato insieme. Con un patto tacito: lo scrittore avesse smesso di raccontare quel personaggio nell’imminenza della guerra. Molti hanno inteso questo accordo come un’implicita dichiarazione della fine di un ciclo. Lo stesso De Giovanni è stato ‘criptico’ – sempre sulle pagine del quotidiano milanese – lasciando la porta socchiusa: “Ci rivedremo? Racconterò̀ ancora di lui?Echilosa,nonl’homaisaputoenonloso adesso. Certamente non fino agli anni Cinquanta, quando il rumore delle bombe sarà̀ solo un incubo nella notte, di quelli che ti lasciano sudato nel letto a occhi spalancati nel buio. Quando il fumo si sarà̀ dissolto e ci sarà̀ di nuovo un futuro da in- travedere. Non prima di allora, quando Marta sarà un’adolescente e magari avrà la forza di portare il papà al di là del rimpianto, con tutte le lesioni e le ferite che avrà. Non prima di allora”. E magari – da quella porta accostata – il commissario deciderà di non uscire più, lasciando però il testimone della narrazione a Marta. Nel segno della conservazione della memoria: “Ma la memoria segue altre leggi”, dirà Ricciardi davanti alla tomba di Enrica, “che sono quelle dei sentimenti e non della mente”.