LE OPINIONI

Mi occupo di Futura

Di Arianna Orlando

Arianna Orlando, classe 1995. Diplomata presso il liceo classico di Ischia con un voto eccellente, studentessa attualmente presso la facoltà di lettere moderne alla Federico II di Napoli. Ambiziosamente intellettuale, ambiziosamente scrittrice, donna del XXI secolo nel senso puro del termine con tutti gli oneri e i disaccordi che tale scelta mi genera.

Quando tu entri in classe e i compagni, tra loro, si scambiano i visi e a te danno invece solo le spalle, incastonate in schiene di ghiaccio, alte come montagne onniscienti, io provo difficoltà a spiegare il senso di crudeltà che ti circonda, il senso di vuoto che ti accompagna. E’ come se la luce fredda che i loro corpi-lastre grigie di asfalto-emanano, potesse sciogliere il tuo pavimento e le mattonelle sotto i tuoi piedi diventassero di sostanza molle come pasta pizza. E’ come se d’un tratto il carico di responsabilità, di fatica, di impegno che ti porti appresso nello zaino di scuola franasse e ti sommergesse in forma di terra o farina. Diventa difficile muoversi con i piedi impilati nel pavimento di pasta pizza, diventa difficile respirare con le vie aeree intrise di polveri di terra e farina. Ti auto-esamini molte volte, “cosa c’è che non va in me” è il titolo dell’esame. “Cosa ho fatto” è il manuale da cui studi. Eppure, esaminandoti e riesaminandoti con tutte le tue domande, non riesci a individuare nelle tue azioni una colpa tanto grande da meritare l’emarginazione e l’indifferenza. Sei stato espulso dal recinto di schiene all’interno del quale i compagni si mostrano i visi; nelle loro gole profonde non vengono a galla fili di voce che possa tirare fuori tu e che siano rivolti a te; nei loro giochi e nelle loro risa non ci sono giochi e risa che possano dividere con te. Tu siedi nella stessa classe, in un banco come quello che hanno loro, ma quelli hanno deciso a un tratto che tu non sei più come loro. Sarà per quello che ho detto quella volta, sarà perché non sono mai andato a una festa, sarà per la mia pelle magra che si incolla alle ossa, sarà per i miei pantaloni e per la cinta che non è di marca, sarà che i miei capelli fanno ridere, che i miei occhiali accentuano la forma già ridicola del naso. Cosa ho fatto. Ci fosse una cosa, una soltanto per cui valga questo soffrire! Una volta, esasperato, hai detto: “Odiatemi pure, ma con garbo. Odiatemi per un motivo che sia vero. Uno soltanto. Però vero. Odiatemi con educazione, con rispetto per il fatto che sono un essere umano e con la consapevolezza che la vita che guasti è la mia. Non possiamo piacere a tutti, non possiamo sperare di fare sempre bene. Ma non punitemi con l’indifferenza, nemmeno con l’emarginazione. Non fate come se io non esistessi. Disprezzatemi ma con gentilezza. Se vorrete offendermi, dovrete farlo elencando a me le offese che mi rivolgete e non dovete farne un motivo per riderne tra voi. Datemi modo di difendere questo me stesso che esiste, esiste, esiste anche se voi fate come se io non fossi al mondo o, pur essendoci, fossi così inconsistente da essere invisibile”. Quanto è vile attaccare in gruppo un singolo, quanto è brutto sceglierne uno perché è il più debole, il più piccolo, il più apparentemente fragile. Una volta hai chiesto “come hanno deciso tutti insieme che debba essere io la “preda”? Quando si sono messi d’accordo? Come ci si mette d’accordo? Avviene forse tramite un processo spontaneo, la debolezza che sento si palesa come un odore e loro lo sentono.” Mi hai raccontato che quando telefoni a qualcuno per prendere l’assegno del giorno in cui sei mancato-lo fai con grande fatica, lo fai con il mal di pancia, lo fai con la stizza di sottrarti volentieri a quell’azione- questo qualcuno non ti risponde e se ti risponde, sfortunatamente (e guarda tu il caso quanto è beffardo!) dimentica sempre di dirti qualcosa. Dimentica di darti quella sfilza di esercizi. Dimentica di dirti che pagine devi leggere. Dimentica di parlarti di quella ricerca, di inviarti il file di quella scheda importantissima. Succede sempre. Nessuno vuole farsi interrogare con te, tu non esisti. Nessuno, se ti senti male ed esci dall’aula, vuole accompagnarti e stare fuori con te sostenendoti mentre prendi un po’ di aria. In cinque ore di scuola nessuno ti rivolge la parola. Ma senti parlare di te. Lo senti spesso. Parlano di te sottovoce, con il ghigno del lupo affamato. Ridacchiano in continuazione e il tuo nome si sospira come fosse un alito di vento che passa ma non scuote nemmeno un foglio: non ha nessun senso. Allora a quel punto resti nelle tue spalle, piangi, ti disperi, ti fa male la pancia ogni mattina prima di andare a scuola, il professore si accorge di te, che hai? Dice. Gli dici cos’hai, che stai male, che a scuola non stai bene. Tu diventi piccolo piccolo, le pareti si stringono intorno alla tua testa, le finestre si oscurano e tu cadi in un mondo dove sembra proprio vero che non sei niente. Lo pensa la ragazza riccia, la ragazza bionda, il ragazzo con il naso oblungo che punta contro di te come un dito minaccioso. Allora hai paura, allora piangi. Ma ti accade una cosa bellissima, intanto: tu scegli. Guardi quelle spalle dolcemente inconsapevole che le adopererai come gradini di una strada sterrata e impervia per giungere in alto, da lì-mi dici-la vista è meravigliosa. Mi dici che da lì hai visto l’uomo che vuoi essere: uno che usa le spalle per accogliere, per trainare quelli che non ce la fanno, per essere finestra mica porta da sbattere in faccia a chi detesti. Come uomo anche tu hai le tue antipatie, ma che vuol dire? Dici. Non vuol dire che sarò un ostracista. Non vuol dire che emarginerò. Non vuol dire che lancerò in faccia a qualcuno, con disprezzo, l’invito per una festa come è successo a me, dici. Anche nei momenti più duri io ricorderò che uomo voglio essere: a scuola, a casa, in strada. E non eserciterò mai indifferenza. Mi dici che uomo sei diventato quando mi racconti di una volta in cui l’autista di un autobus aveva volgarmente zittito un uomo che non gli sembrava alla sua altezza. Tu non te ne sei fatto una ragione, non hai scrollato le spalle dicendo “che me ne importa, non mi riguarda”. Hai reagito. Hai coperto quell’uomo debole con la tua voce e lo hai protetto facendo delle tue parole per lui un cantuccio caldo. Gli altri, che non avevano avuto coraggio, ne hanno preso un poco grazie a te e si sono inalberati, hanno detto “vergogna” all’autista che aveva offeso, all’autista che aveva denigrato. L’uomo se ne è stato seduto accolto da un magma potente di calore e accoglienza e tutte quelle parole come fuocherelli accesi del suo magma sono fuoriusciti da te. Tu lo hai sorretto con le spalle. Allora, ecco, te lo voglio dire: lì io ho avuto tutte le mie convinzioni definitive: seppure t’avessi incontrato un giorno di schiena, tra migliaia di spalle, le tue le avrei riconosciute. Sono stati forti i tuoi compagni di classe per un breve tempo, feroci come lupi e hanno usato le loro spalle come porta per sbattertela in faccia e tu hai pianto. Ma ora sei pronto per fare sì che non accada ad altri, per farmi scrivere questa lettera a Futura. In questa lettera io dico “Futura, di quante spalle incontrerai nella vita, scegli tu quale paio vuoi prenderne per te.”

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