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Non solo Darwin: la teoria degli equilibri punteggiati

“L’origine delle specie” di Darwin, pubblicato nel lontano 1859, è considerato il libro sull’evoluzione per eccellenza, dato che in esso venne proposta a tutto il mondo accademico la teoria della selezione naturale (specifico “tutto il mondo” perché Darwin aveva avuto una fitta corrispondenza con il naturalista Alfred Russell Wallace, che raggiunse le stesse conclusioni dell’autore del tomo in maniera indipendente). Lì viene messa davanti a tutti la teoria della survival of the fittest (sopravvivenza, non del “più forte”, ma del “più adatto” alle condizioni ambientali) e il come essa “guidi” la variabilità genetica dei caratteri ereditabili verso un vantaggio competitivo, che porta ad un numero maggiore di figli sani. La variabilità è importante, dato che senza di essa si avrebbero molti casi di malattie tra portatori sani (ciò dimostra come la selezione agisce sul fenotipo, ovvero “come si è fuori”, piuttosto che sul genotipo, “come si è geneticamente”, altrimenti i geni che portano malattie non sarebbero più presenti) e permette di persistere se le condizioni ambientali a piccola scala cambiano all’improvviso. Introduce anche il concetto di specie generaliste (versatili ed adatte a vivere un po’ ovunque anche se non dominando) e specialiste (adatte solo a determinate condizioni ambientali ma “vincenti” nella competizione locale con i generalisti).

Successivamente nel 1871 Darwin pubblicò “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale”, facendo notare come anche la competizione per i partner porta alla selezione di determinati caratteri, non spiegabili direttamente per selezione naturale (come ad esempio la coda del pavone, che è svantaggiosa in caso di tentata predazione, ma è estremamente vantaggiosa nella “sfida” tra potenziali partner e porta ad un maggiore successo riproduttivo). Questo aggiornamento e quelli successivi allo scienziato britannico sembrano argomenti astratti per gran parte degli italiani, dato che le loro conoscenze si esauriscono alla pubblicazione del 1859 e non sanno nulla del post Darwin. Dopo più di 100 anni sarebbe anche pretestuoso pensare che non ci siano stati ulteriori update. Difatti il gradualismo filetico (l’ipotesi secondo cui la comparsa delle nuove specie è dovuta alla trasformazione di una specie primitiva in specie discendenti di volta in volta diverse tramite il lento accumulo di cambiamenti nei fenotipi presenti nelle popolazioni naturali, ispirata dalle teorie darwiniane) cozza con la mancanza nei reperti fossili di una lunga serie di forme intermedie che collegano fenotipi ancestrali e derivati. Inoltre esso analizza l’evoluzione a livello di specie (ci sono varie categorie dette taxa che riuniscono viventi più “simili” tra loro rispetto ad altri e la specie è l’ultima categoria) e non si propone di andare oltre.

Nel 1972 venne proposta una nuova teoria evolutiva dai paleontologi americani Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, detta “teoria degli equilibri punteggiati”. Secondo questa teoria la storia evolutiva consiste di lunghi periodi in cui le specie sono relativamente stabili in quanto l’evoluzione è ridotta o assente. Questi periodi di stasi sono detti “intermittenti” in quanto vengono interrotti da brevi periodi (sul piano geologico) di rapida evoluzione e comparsa di nuove specie; inoltre l’evoluzione, secondo questa teoria, è influenzata da contingenze storiche (ad esempio un’eruzione) e dai cosiddetti “piani di sviluppo dell’organismo” e non solo dalla selezione naturale. Introduce anche il concetto di Baupläne, i piani strutturali degli organismi che differiscono molto a livello di categorie superiori al genere e poco a livello di genere e specie: alcuni di loro possono estinguersi, portando allo sviluppo di altri.

Il fatto è che ci siano due diverse macro teorie (quelle base, poi differisce il come interpretarle) su come le specie evolvono non deve far pensare che l’evoluzione manchi di prove: un esempio visibile di come apparteniamo al phylum (la categoria “massima”) dei cordati è la presenza della coda e delle branchie che noi umani abbiamo nelle prime fasi del nostro sviluppo; oppure, usando sempre noi come “cavie”, la presenza di organi vestigiali (non più utilizzati ma in passato usati dai nostri antenati e che non sono stati ancora eliminati dalla selezione naturale) come i denti del giudizio mostra come la selezione agisce su di noi. Altri chiari esempi sono la presenza di arti abbozzati e bacini rudimentali nelle balene e nei serpenti, derivanti da animali quadrupedi che, al cambio di locomozione, hanno perso quelle strutture (nel caso delle balene si nota anche un osso del piede in comune con gli ungulati, gli animali con gli zoccoli) e, ovviamente, i fossili.

*BsC in STeNa e specializzando in Scienze della Natura presso “La Sapienza” di Roma

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