Nunzia Zambardi, ovvero volto dell’anima
di Massimo Colella
L’universo umano ed artistico di Nunzia Zambardi costantemente invita il fruitore (dell’opera) o, meglio, l’interlocutore (dell’anima) ad un viaggio onirico, talora fantasmatico, conducente con tracimante energia al cuore stesso del mistero creaturale e psichico. La persistenza diacronica del macro-tema del Volto nell’opera zambardiana segna, per così dire, non solo e non tanto una retrospettiva, in cui l’indagatore attento è naturalmente chiamato a cogliere e partitamente analizzare metamorfosi e shiftings variantistici (a partire dalla decisa quanto fluida virata verso l’informale), quanto piuttosto una prospettiva, un’apertura cioè su quel futuro che l’artista consapevolmente affida alla cabala cromatica del verde. La precisa opzione tematica costituisce un senhal interessante della direzione da cui e verso cui la Zambardi intende muoversi: il Volto-arché, già elemento puntuale e magnificamente ricorsivo di una grammatica dell’Essere e dell’Esprimersi, diviene ora codice ultimo, alfabeto complessivo, tavola primaria. La sua funzione non è strumentale, bensì teleologica ed escatologica.
Il fatto è che nel Volto programmaticamente si annidano le propulsive tensioni dell’heideggeriano pensiero poetante della Zambardi. Il Volto è circolarità: circolarità affettiva ed esistenziale, circolarità di dialoghi e doni, circolarità di suggestioni e intuizioni. È il Volto della Madre. E del Figlio. La valenza cristologica dell’operazione zambardiana si carica di un’allusività potente alle dinamiche dell’odierno. Il Volto segna allora l’apertura: punto di congiunzione tra l’esterno e l’interno, tra il corpo e la psiche, tra l’estrinsecazione e l’indecifrato, l’emblema – talora declinato al duale – presentifica l’attuale necessità, giustamente avvertita dall’artista come cruciale, di recuperare alla comune esperienza una più ampia rete di relazioni umane, un caleidoscopio di sguardi-agnizioni, una fantasmagoria di autentici e vividi contatti.
Lucidissima ri-costruzione delle aporie dell’oggi e dinamica costruzione del dialogo come ipotesi possibile, la magistrale arte della Zambardi è anche de-costruzione dei pregiudizi relativi ad un presunto status di minorità della Materia (si pensi anche solo al magnifico objet trouvé della corteccia-fiaccola, latrice di illuminazione/elevazione): riscattata dal destino aristotelico, la Materia zambardiana vive nella e della feconda intuizione di Giordano Bruno (De la causa, principio et uno), assumendo l’inconfondibile configurazione di una Vita-Materia infinita, sempre pronta a rinnovellarsi nelle simboliche costellazioni di un Kòsmos etico finalmente ripristinato (Spaccio de la bestia trionfante). L’eterogenea e cooperante Materia, ri-vissuta anche nella dimensione trenetica della catartica e salvifica messe di gocce-pianto che l’artista, mediante dripping, decide pollockianamente di non frenare, risulta essere così il cronotopo vivente e al contempo l’immaginaria cartografia. In cui armonicamente percepire e disporre, visualizzare e offrire i volti del Sé e dell’Altro. I volti rammemorati e ricreati (si ripensi ai celebri versi montaliani: «Trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio un’immagine ride. / Accosto il volto a evanescenti labbri»). I volti euforici e disforici. I volti, anche archetipici (iuxta la metafora cristica), del più straziante dolore e della più acuta speranza. I molteplici volti, in definitiva, del volto dell’anima.