CULTURA & SOCIETA'

Aenaria, un futuro da museo sottomarino. Stefanile: «Perché la memoria va raccontata»

La best practice di Baia, la divulgazione culturale, il ruolo cruciale dei centri sub come porte d’ingresso alle meraviglie del fondo marino. Ad Arkeostorie l’autore del saggio “Andare per le città sepolte” parla di tutela, conservazione, restauro, valorizzazione e fruizione del patrimonio archeologico sommerso. E di come sta cambiando il modo di vivere i reperti e i relitti che giacciono sul fondo del mare 

Piccole e grandi città, nel corso della storia, nascono e poi muoiono. Per eventi naturali catastrofici, perché sconfitte o rase al suolo dagli eserciti nemici, per una crisi commerciale che esaurisce la loro spinta vitale o perché, più naturalmente, si compie la loro parabola di vita. Comincia il declino, si spopolano, scompaiono. Quasi sempre, però, lasciano segni e testimonianze che l’uomo non smette di cercare e interpretare.

Il mondo antico ci ha consegnato una serie di centri ormai non più esistenti. Alcuni sono luoghi mitici, forse immaginari, come Atlantide o Troia; altri sono cittadine che solo attraverso la tenacia e le ricerche degli archeologi, tornano a far sentire la loro voce. Anche quando provengono dalle misteriose profondità del mare. Come Aenaria, l’insediamento romano che, grazie alle campagne di scavo archeologico dirette dall’archeologa Alessandra Benini, sta riaffiorando per rendere trasparente ciò che è rimasto occultato per secoli.
Se ne è parlato lunedì scorso a Ischia Ponte, in occasione della presentazione di un volume, “Andare per le città sepolte” (edizione Il Mulino), scritto dall’archeologo Michele Stefanile.
Basta un fine settimana per nuotare tra le strade e i mosaici sommersi di Baia, nel Golfo di Napoli, esplorare il Foro e le case di Pompei, e spingersi a sud, verso l’antica Paestum, con i templi austeri a vegliare su un mare di rovine. Città un tempo ricche e popolose, uscite poi di scena in modi traumatici o spentesi lentamente, sopraffatte dalla natura o spianate dalle armi, vinte in ogni caso da un declino inesorabile. Un viaggio sulle tracce di una storia millenaria che ci ha plasmato per quello che siamo.

Trentasei anni, archeologo subacqueo presso l’Università di Napoli “L’Orientale” e divulgatore scientifico, Stefanile è responsabile, dal 2011, del laboratorio di Archeologia Subacquea e Navale per lo stesso Ateneo e, dal 2017, del Laboratorio di Comunicazione archeologica. Lavora inoltre per l’ISCR-Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro e nel Progetto MUSAS, per la valorizzazione del patrimonio archeologico subacqueo di Baia, Crotone, Kaulonia ed Egnatia.

Ha cominciato nel 2007. Come è cambiata la sua professione in questi 12 anni?
«Le nuove tecnologie sono entrate prepotentemente in quello che facciamo, anche dal punto di vista della documentazione. Dai disegni sulla lavagnetta, fatti in immersione, siamo passati ai modelli 3D di quello che rinveniamo sott’acqua. Oggi riusciamo a documentare in pochi minuti quello che anni fa richiedeva una settimana di lavoro. L’archeologia subacquea è un settore in via di espansione e l’anno di svolta è stato il 2001, quando è stata scritta la Convenzione dell’UNESCO sul patrimonio culturale subacqueo, che l’Italia, pur avendo contribuito a scriverla, ha ratificato solo nel 2009, otto anni dopo. Un testo fondamentale non solo perché condiviso a livello internazionale, ma perchè spiega cos’è da considerarsi archeologia subacquea e cosa no: un reperto diventa patrimonio subacqueo dopo 100 anni in acqua. Non può essere venduto, non può essere espoliato, non può essere trasferito a terzi. Va quindi tutelato. I principi della Convenzione, inoltre, spingono noi archeologi a far conoscere i siti subacquei, a lavorare sulla diffusione delle conoscenze, a immaginare nuove modalità di visita e di fruizione per tesori che, quando possibile, andrebbero lasciati in situ, nei luoghi di rinvenimento.»

Quando è davvero possibile lasciare tutto in acqua e quando è invece necessario portare a galla ciò che affiora durante le ricerche archeologiche?

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«Quando, per ragioni diverse, non si può garantire la conservazione, va riportato su. Penso, ad esempio, al danneggiamento naturale. O quando c’è il rischio di furto. Le anfore le recuperiamo per motivi di sicurezza; trovandosi a bassa profondità c’è il rischio che arrivi qualcuno che se le prenda.»

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È vero che il mare consente di mantenere dei giacimenti archeologici molto più protetti rispetto a quelli in ambiente aereo?

«Il mare ci regala siti diversi. E materiali diversi. Pensiamo ai legni, ne troviamo tanti. Non così belli come la cassaforma lignea di Aenaria, in ottimo stato di conservazione. Esempi simili sono difficili da trovare. Poi, certo, si trovano i relitti. Capsule del tempo chiuse, ma che ci dicono qualcosa di estremamente prezioso: tutto quello che troviamo al loro interno viaggiava in quel determinato momento della storia.»

In che modo si gestisce un sito sottomarino, come potrebbe diventare definitivamente quello di Aenaria nella baia di Cartaromana?
«Bisogna fare due cose: garantire la tutela, quindi fare tutto quello che si può per evitare che le persone portino via i materiali. Non è dispendioso, ormai le tecnologie costano relativamente poco. E poi renderlo fruibile. Le persone tendono a percepire quello che si trova sott’acqua come un mondo a parte, invece è vicinissimo. Da tempo studio ville marittime: in alcuni casi la documentazione che riuscivo a recuperare si fermava giusto lungo la linea della spiaggia»

Cosa significa conservare sott’acqua?

«Dipende molto dai materiali. In linea di massima, i materiali lignei sono estremamente deperibili perché corrosi da organismi marini in tempi molto rapidi. Troviamo le navi perché all’interno ci sono le anfore che le proteggono. Se le togliessimo, si rovinerebbero subito. In quel caso bisogna proteggere il relitto ricoprendolo con sabbia o un altro tipo di protezione. Il rischio è perderlo definitivamente. Oggi tutti gli sforzi della ricerca sono rivolti alla conservazione, che in mare è chiaramente più complicata: il sito di Baia, in Campania, è un esempio di best practice sotto molti punti di vista. E’ il più avanzato laboratorio al mondo per il restauro subacqueo, dove si studiano tecniche e interventi su mosaici di pregio eccezionale e di eccezionale fragilità, sui muri, sulle colonne e sui marmi di una cittadina sprofondata tra i quattro e i sei metri sotto il livello del mare, a causa del bradisismo che caratterizza l’area dei Campi Flegrei»

Traffico marittimo. Interdizione o no? Aenaria non lo è certo per 12 mesi all’anno.
«Qualche rischio potrebbe esserci, in effetti. Anni fa il sito di Baia aveva ricevuto danni molto seri perché delle navi commerciali erano riuscite a toccare i mosaici. Aenaria, o altre realtà, sono più profonde, quindi sembrano protette. In realtà sono ugualmente fragili. Penso ai pescherecci quando calano le reti a strascico e spostano tutto. Il Satiro Danzante di Mazara del Vallo è stato trovato lontano dal punto in cui era affondata la nave. L’interdizione, però, è solo una delle misure possibili. Serve a poco, se non c’è una sorveglianza continua.»
Il fenomeno dei tombaroli è ancora così presente nel mondo sommerso del Golfo di Napoli?
E’ in remissione. Non solo perché sono intervenute le Forze dell’ordine, che svolgono una costante attività di controllo e monitoraggio, ma perché c’è stata un’autentica inversione culturale rispetto al saccheggio. Spiegare alle nuove generazioni, quindi ai futuri fruitori del mare, che un’anfora è meglio che resti dove sia anziché portarsela a casa per farne un portaombrelli, ha dato i suoi frutti. Dopo anni in cui è stato preso di tutto, sono più ottimista.»

Forse bisognerebbe lavorare meglio sul rapporto tra siti, patrimonio archeologico, ricercatori e pubblico di visitatori. Dialettica spesso faticosa.

«Solo un sito davvero aperto viene percepito come un bene dalla comunità che lo custodisce, ed è questo l’unico modo per difendere contesti che per la loro stessa natura non possono essere chiusi da cancelli e muretti. In generale c’è bisogno di più apertura ai media e al pubblico. Più condivisione e meno segretezza. Favorire la diffusione delle immagini e le visite ai siti. Anche quelli di scavo e quelli subacquei. Adottando sistemi che, grazie alle nuove tecnologie, rendono i siti accessibili, almeno in modo virtuale, anche a chi in acqua non può andare. Esplorazioni virtuali, ricostruzioni in 3D, realtà aumentata. I modi sono tanti.»

Anche per Aenaria possiamo immaginare un futuro da museo sottomarino?
«Certo. Esistono molti siti sommersi che si stanno trasformando in musei. Si tratta semplicemente di garantirne la tutela e al tempo stesso organizzare le visite anche con percorsi guidati. Il Parco di Baia, nel Golfo di Napoli, è un ottimo esempio in questo senso: da un quindicennio, ormai, i centri sub, opportunamente formati dalla Soprintendenza, conducono sub da tutto il mondo in questa splendida realtà archeologica. Idem in Sicilia, all’avanguardia nel campo dell’archeologia subacquea. Non vedo perché non si possa replicare anche per Aenaria.»

La governance ideale? Sempre pubblico-privato?

«Non necessariamente. Oggi i centri sub sono le porte di ingresso dei subacquei. I primi difensori del patrimonio archeologico sottomarino. I primi in grado di segnalare l’insorgere di eventuali problemi di conservazione senza dover attendere le immersioni degli archeologi. E’ il Ministero, attraverso le Soprintendenza e gli organi territoriali a dialogare con centri-sub. Una dialettica che funziona in molti casi, in Italia e all’estero.»
E’ vero che il suo primo articolo scientifico è stato dedicato ai lingotti di piombo di Aenaria?
«Mi occupavo dei rapporti tra la Campania antica e la Spagna, studiando le famiglie tra le quelli quella che aveva bollato il lingotto poi rinvenuto nella baia. Una fonderia? Sono perplesso. Gli scarti di lavorazione ci sono, quanto poi fosse grande questa attività non possiamo ancora dirlo.»
Chi investe oggi in archeologia sottomarina? Da dove arrivano i fondi che finanziano le campagne di scavo archeologico sott’acqua?
«In gran parte dall’Europa. In questi giorni parteciperò a un convegno ad Atene dove saranno illustrati gli ottimi risultati che stanno dando gli investimenti europei nella valorizzazione del patrimonio subacqueo. Anche l’Italia finanzia progetti importanti. I privati? Ci sono, ma molto dipende dai singoli casi. In realtà quello che manca è una cabina di regia nazionale. In passato c’è stata e coordinava le attività in tutta Italia. Adesso si va avanti in maniera un po’ anarchica. Alcune Soprintendenze sono più attive, veloci, stimolano progetti e iniziative; altre sono più lente. Il nostro paese ha più di 7000 Km di coste, siti costieri di primaria importanza a livello mondiale, una forte tradizione sull’archeologia subacquea e ottimi professionisti. Sarebbe importante investire di più.»
E magari procedere a una mappatura completa, che includa anche le isole minori.
«Anni fa fu finanziato dal Ministero dei Beni Culturali un progetto di censimento (ArcheoMar) che permise di identificare oltre 1.000 siti sommersi ma nelle sole acque di Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Lazio e Toscana. Poi si è interrotto. Un gran peccato, perché era uno strumento importante per la conoscenza, ma anche per la tutela. Tutti i dati e le posizioni dei siti sommersi venivano comunicate alle Forze dell’ordine, in modo da poterne garantire la vigilanza. Mi auguro che, prima o poi, questo progetto possa essere in qualche modo ripreso e recuperato.»

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