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Paolo Massa si confessa: «Vi racconto la mia battaglia sui disturbi alimentari»

La costituzione dell’associazione “Artemisia una voce per l’anoressia”, poi una serie di iniziative per sensibilizzare (anche in ambiente didattico) l’opinione pubblica su un fenomeno spesso nascosto ma che ha una diffusione spaventosa. E poi i risultati ottenuti e quello che resta da fare in una toccante intervista a Il Golfo

DI MARIA ELETTRA IRACE

La sua storia è nota a tutti, ma potrebbe raccontarci com’è nata l’idea di impegnarsi in prima linea attraverso l’associazione Artemisia una voce per l’anoressia?

«L’associazione è nata dopo l’esperienza con mia figlia, poiché mi sono trovato in delle situazioni burocratiche e ospedaliere assurde. In questo senso il mio desiderio era di portare una voce di contestazione e provare a lottare per tutte le famiglie che si trovano a fronteggiare questa malattia. Mia figlia era maggiorenne, in questi casi è davvero difficile».

Crede che in Italia venga fatto abbastanza per supportare le famiglie che hanno a che fare con un disturbo alimentare? Se no, cosa non funziona?

«C’è da dire che i disturbi del comportamento alimentare sono malattie relativamente giovani: da questo punto di vista talvolta anche la scienza non ha ancora tutte le risposte. Sono malattie molto costose poiché richiedono un approccio ambulatoriale multidisciplinare, sono varie le figure che devono lavorare sinergicamente su un paziente. Talvolta si ha l’impressione che anche per questo finora si sia scelto di ignorare il problema, che ha delle cifre impressionanti. Solo in Italia si stima che solo i malati che si rivolgono alle aziende sanitarie locali siano due milioni, più un milione e mezzo di malati non ufficiali. Una vera e propria epidemia».

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«L’associazione è nata dopo l’esperienza vissuta con mia figlia, mi sono trovato in situazioni burocratiche e ospedaliere assurde. Il mio desiderio era di portare una voce di contestazione e provare a lottare per tutte le famiglie che fronteggiano questa malattia. Mia figlia era maggiorenne, in questi casi è davvero difficile»

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L’anoressia è ancora un qualcosa di poco conosciuto?

«Mi sono reso conto che uno dei motivi per cui spesso ci si trova impreparati è la scarsa informazione su questi temi. Quando ho vissuto la malattia di mia figlia sette anni fa si sapeva ancora meno che oggi. Per questo uno degli obiettivi dell’associazione è l’informazione, che può fare la differenza anche se noi come realtà associativa portiamo solo un piccolo contributo al problema che è enorme. Io stesso credevo che la questione fosse legata solo al cibo e non conoscevo appieno tutti gli aspetti anche psicologici della malattia. Inoltre quando facemmo un mini corso per i pediatri dell’ASL Napoli 2 Nord grazie al dottor Giacinto Calise, molti furono colpiti dal fatto che sintomi della malattia come scompensi cardiaci fossero legati alla malnutrizione, invece si pensava erroneamente che fossero problemi legati al cuore.Per questo dico che ancora oggi ci sono tanti aspetti che stanno emergendo solo adesso».

La prevenzione è quasi più importante della cura?

«Puoi anche aprire centri su centri, ma nel frattempo i malati saranno raddoppiati. Se non si agisce alla radice del problema non ne verremo a capo. Per questo andrebbe fatta una massiccia campagna di prevenzione, un po’ come col Covid per cui col vaccino si andava a lavorare su chi ancora non era malato. Se riuscissimo a leggere i primi segnali della malattia riusciremmo a evitare un percorso terapeutico lungo e tortuoso. Si stima che in media un malato affetto da DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) arrivi al giusto percorso di cura dopo due anni dall’inizio della malattia: è gravissimo. Se riuscissimo con la prevenzione a evitare che si arrivi così tardi a chiedere aiuto potremmo salvare molte vite. Lavorare sui segnali di rischio».

«Abbiamo portato avanti, con altre associazioni, questa battaglia. Il problema è che essendo inclusa nello spettro di altre malattie psichiatriche, l’anoressia veniva quasi “ghettizzata” e i fondi stanziati venivano spesi per altri disturbi. In questo senso il fatto di essere riconosciuta come malattia a sé stante ha permesso di ottenere fondi mirati»

Dalle sue parole emerge l’importanza della prevenzione sui disturbi del comportamento alimentare (DCA) anche nelle scuole. Ci può parlare dell’istituzione del referente DCA? Crede che questo provvedimento potrà fare la differenza?

«Come possiamo lavorare sui segnali di rischio? Nelle scuole. Dopo la famiglia la scuola è l’ambiente più frequentato dai giovani, quindi se i docenti avessero gli strumenti per riconoscere i primi segnali della malattia potremmo giocare d’anticipo. Mia figlia stessa scrisse al tempo una lettera a un docente, in cui oggi io vedo chiaramente alcuni segnali che purtroppo non avevo modo di cogliere prima. I giovani di oggi sono esposti a modelli inarrivabili: o si arriva alla perfezione o alla frustrazione. La scuola potrebbe avere un ruolo, noi stessi abbiamo gestito dei ragazzi affetti da disturbi alimentari che non sono studenti semplici: sono magari più sensibili, dotati di una certa intelligenza, non sono facili da gestire. Noi come scuola abbiamo l’obbligo di stare accanto agli studenti fragili, anche nel caso di un lutto, un disturbo alimentare o qualsiasi altra cosa: ma come lo facciamo se non conosciamo il problema? Anche nel caso della lettera di mia figlia Misia, in quel periodo lei stava ancora bene e se fossimo stati capaci di cogliere queste avvisaglie, avremmo potuto agire prima. Per questo l’informazione è essenziale: anche un amico, un docente o qualsiasi persona può aiutare i familiaria vedere il problema sul nascere».

«Come lavorare sui segnali di rischio? Nelle scuole. Dopo la famiglia la scuola è l’ambiente più frequentato dai giovani, quindi se i docenti avessero gli strumenti per riconoscere i primi segnali della malattia potremmo giocare d’anticipo. Mia figlia stessa scrisse una lettera a un docente, in cui c’erano segnali che io non colsi»

A volte si pensa che sia un problema di volontà, come con altri disturbi che rientrano nello spettro psicologico, come la depressione. Quasi come se il malato “scelga” di stare male.

«Sì, inoltre nel caso dei DCA la malnutrizione porta a dei veri e propri scompensi organici, non è più solo un problema psicologico. Io stesso ho visto nelle risonanze magnetiche dei malati gli effetti della malnutrizione. Ancora oggi certi disturbi vivono lo stigma sociale, lo vediamo a scuola con lo sportello d’ascolto, a cui ci si rivolge con molto pudore. Per non parlare dei problemi che rientrano nell’ambito della psichiatria. Ritardare gli aiuti qualora ci sia bisogno del supporto farmacologico crea seri problemi».

La pandemia e tutto quello che si è portata dietro specialmente nei giovani può rendere più vulnerabili anche di fronte a questa malattia?

«Sicuramente e lo vediamo anche nell’associazione. Per questo sono molto contento dell’istituzione del referente, perché almeno adesso le famiglie hanno un punto di riferimento anche a scuola. In più abbiamo fatto formazione per i docenti, siamo molto soddisfatti di questo, non abbiamo la bacchetta magica per risolvere il problema ma sono passi importanti».

«A volte mi sento come Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento: io solo non posso risolvere il problema. Posso essere da supporto, da integrazione, portare la mia testimonianza come genitore, ma non ho gli strumenti per smuovere davvero qualcosa. Eppure solo la prevenzione può fare la differenza»

Per la prima volta una norma ha stabilito che l’anoressia viene considerata una malattia e sono stati destinati dei fondi ad hoc. È un primo passo importante?

Curled up anorexic girl sitting on the floor

«Noi abbiamo portato avanti, con altre associazioni, questa battaglia. Il problema è che essendo inclusa nello spettro di altre malattie psichiatriche, l’anoressia veniva quasi “ghettizzata” e i fondi stanziati venivano spesi per altri disturbi. In questo senso il fatto di essere riconosciuta come malattia a sé stante ha permesso di poter avere dei fondi mirati (25 milioni di euro). Adesso tutti sanno che questa malattia è diversa e differente è anche l’iter di cura, che porta come dicevamo a degli scompensi organici importanti e non può quindi essere associata ad altre malattie.A un certo punto la priorità diventa il corpo, nell’ottica di un percorso unico che affronti tutti i sintomi della malattia».

Che possiamo fare per contribuire alla causa?

«Parlarne il più possibile. Con la preside del liceo e anche con le altre associazioni faccio spesso presente che bisogna puntare al MIUR, non si può pensare di fare informazione solo a livello locale. Io come referente di bullismo e cyberbullismo ho dovuto fare un corso di 25 ore online. Perché non fare la stessa cosa con i disturbi alimentari? Le cifre sono drammatiche».

In realtà di questi disturbi si parla da anni, forse non si vuole vedere il problema?

«Purtroppo è un disturbo insidioso, alcuni atteggiamenti potrebbero essere sottovalutati. Solo negli ultimi anni è venuto fuori tutto quello che c’è dietro, spesso si pensa a un capriccio della persona».

Che livello di sensibilità c’è sull’isola? L’attività dell’associazione è servita a sensibilizzare l’opinione pubblica?

«Piano piano stiamo diventando un punto di riferimento, ma il lavoro da fare è tanto.Anche nel caso dell’autismo i pediatri, che hanno oggi gli strumenti per spingere le famiglie a fare degli accertamenti in tempo,possono cambiare la vita di questi ragazzi. Perché non fare lo stesso con i disturbi alimentari? Andrebbe fatto un lavoro capillare, altrimenti le associazioni come la mia arriveranno sempre troppo tardi. Queste malattie non hanno solo fattori genetici, ci sono dei fattori ambientali in gioco e su questi si può lavorare. Anche la comunicazione può incidere. A volte mi sento come Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento: io solo non posso risolvere il problema. Posso essere da supporto, da integrazione, portare la mia testimonianza come genitore, ma non ho gli strumenti per smuovere davvero qualcosa. Anche le realtà associative dovrebbero cercare di smuovere qualcosa dall’alto e non andare alle manifestazioni solo per parlare dei propri progetti. Spero che in qualche modo un vero lavoro di prevenzione potrà in futuro fare la differenza».

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