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Percezione e autenticità

Gentile Professore,

ho quarant’anni e ho sempre sentito una vocazione all’attività creativa, che trascorsi gli anni giovanili, ho finito per mettere da parte. Una volta, coltivavo la pittura, la fotografia, la scrittura – magari non con esiti eccelsi -, ma che erano tali da donarmi momenti di pura felicità. In quei lavori mi attardavo con concentrazione assoluta e provavo allegria e soddisfazione nel vedere i risultati concreti a cui arrivavo grazie ai miei sforzi, e persino i miei limiti e i miei difetti.

Poi, col passare del tempo, è sorta una specie di distrazione; i sensi si sono offuscati; la realtà è diventata più ottusa e ordinaria. La routine del lavoro, delle cure famigliari, persino dei divertimenti – sempre i soliti, sempre più ripetitivi e vuoti -, mi ha sigillato in una sofferenza sorda e vuota. Tutto ciò ha significato crisi: non solo nei rapporti coniugali, ma crisi con me stessa e col mondo.

Ho deciso, infine, dopo numerosi tentennamenti, di iniziare un percorso psicoterapeutico di tipo analitico. All’inizio è stato difficile; ammetto che quella libertà di dire e di sentire che le sedute mi consentivano mi spaventava, perché entravo in contatto con una me dimenticata, tralasciata o esclusa che faticavo a riconoscere. Anzi, il più delle volte quella figura che occhieggiava in penombra io la rigettavo. Ma, con l’aiuto intelligente e saggio del mio analista e la voglia di emergere sempre più evidente di una mia personalità profonda forte e tenace, ho finalmente ricominciato a prendere gusto alle percezioni dei sensi e a quanto col pensiero e le mani riesco a forgiare. Anzi, oggi mi sento molto più determinata e matura, meno volatile e superficiale di quando ero giovane, e provo gioia e orgoglio per la passione, che alimento quotidianamente, per il collage artistico e la creazione di oggetti originali e bizzarri in cui rifletto liberamente e autenticamente tutta me stessa.

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Gentile lettrice,

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la sua missiva rappresenta una splendida testimonianza del valore del lavoro analitico e più che pormi un interrogativo specifico, m’induce ad “amplificare” ulteriormente la sua esperienza, fornendole una cornice di riferimento teorica.

Aldilà di tale inquadramento, ci tengo a sottolineare come la sua vicenda corrisponda ad altre che, pur  nell’estrema variabilità e unicità dei percorsi individuali, io stesso, come terapeuta, ho visto sbocciare con i miei pazienti in lunghi anni di impegno sulle loro “immagini” (contenuti psichici carichi di stati emotivi), confidando nell’emergere di quella “nuova” attitudine della personalità che Carl Gustav Jung (1875 – 1961) descriveva come l’insorgere della “funzione trascendente”.

Il nome di questo processo psichico lo psicologo svizzero lo mutuava dal linguaggio matematico (e non da quello metafisico), poiché alludeva allo scaturire nella psiche di una “terza realtà”, creativa e trasformativa, che viene a sostituirsi al preesistente conflitto tra dimensione inconscia e dimensione cosciente. In altre parole, Jung metteva in risalto il valore benefico di un rapporto tra provenienze inconsce e modi e contenuti già acquisiti dalla Coscienza. Quest’ultima egli la considerava naturalmente “conservatrice”, orientata, cioè, a mantenere nel soggetto umano equilibri preordinati e abitudinari sul piano affettivo e cognitivo.

L’accesso in una Coscienza, unilaterale e sbilanciata nel vivere e concepire il mondo in modo prefabbricato, di immagini inconsce, afferma Jung, avviene mediante l’irrompere dell’intuizione – una funzione “irrazionale” della psiche – che, solitamente, viene esclusa dai processi di pensiero e dall’organizzazione più convenzionale dei sentimenti.

La Coscienza, infatti, è, per sua natura, costretta a focalizzarsi su aspetti di realtà terribilmente circoscritti, minimi rispetto all’esistente, sicché un ampliamento delle sensazioni la sovrasterebbe, mandandola in pezzi. D’altro canto, se essa smette di entrare periodicamente in crisi, ostinandosi nel rigettare ogni contenuto dissonante con i suoi schemi affettivi e cognitivi, tutta la personalità ne riceve un incalcolabile danno, visto che non ha più alcuna capacità di rispondere alle richieste di un mondo (interno ed esterno) in continuo fluire e cambiamento.

Già Sigmund Freud (1856 – 1939) nei suoi studi sui “meccanismi di difesa dell’Io” aveva messo in luce come lo stesso adattamento dell’uomo alla vita implichi un permanente conflitto e una necessità di proteggere la Coscienza dagli urti di forze psichiche contundenti e traumatiche: nell’essere umano allo “stato naturale” egli individuava una perenne contesa tra bisogni di sopravvivenza, appetiti e pulsioni – quest’ultime di natura erotica o distruttiva e dunque basicamente contraddittorie; dall’altra, nei vari stati di civilizzazione, lo scienziato viennese rinveniva l’oneroso piegarsi dell’uomo alle regole sociali. Quest’ultime, se per un verso gli garantiscono un certo benessere, proteggendol’individuo da soverchi pericoli, implicano contemporaneamente una permanente e dolorosa nevrosi. La nevrosi è frutto, dunque, delle proibizioni e dei tabù infiltrati sottocute della Coscienza dalla famiglia, dalla scuola, dalla religione, dallo stato, dall’orientamento culturale della società, e ne limitano non solo, a valle, la libertà e l’autenticità di espressione ma, a monte, lo sguardo sulle cose e su sé stesso.

Ecco, allora, che rimozione, negazione, diniego e proiezione, automatismi inconsci dall’Io messi in moto a sua protezione, assicurano alla vita – secondo Freud – il costante sottofondo di una percezione distorta e inautentica. Da qui il compito della cura psicoanalitica di riportare a galla “il rimosso”, fornendogli spazio e significato a livello cosciente.

Di certo, il lavoro psichico profondo non può accettare come “già dato” il mondo e richiede uno sforzo creativo che si fonda su un ampliamento del campo percettivo e del senso degli avvenimenti (con tutti i possibili significati che da tale attitudine possono derivare). Un tale procedimento da pura esperienza di fatica mentale, con l’esercizio, s’impregna sempre più del piacere assorbente del gioco, così come accade spontaneamente nell’età infantile. L’impegno richiesto al/la paziente è quello di porre particolare attenzione, quindi, alla qualità dei fenomeni, alla loro consistenza, al tessuto che li compone, alle idee che gli si accompagnano, considerandole quale parte integrante di della vita affettiva stessa.

Laddove, in precedenza, lo sguardo scorreva con indifferenza e superficialità, poco a poco, nasce nel/la paziente una disposizione a cogliere, a vagliare, a lasciarsi permeare dalla forza intrinseca delle immagini, fino a goderne intimamente.

E di tutto si tratta tranne che di un processo di diversione e disimpegno fantastico, come si potrebbe credere di primo acchito, bensì del suo esatto opposto: ovvero – prendendo a prestito un po’ avventurosamente i termini di Jacques Lacan (1901 – 1981) – di un passaggio dal subire il dettato oscuro di un immaginario che si vendica dell’Io che lo esclude dalla vita cosciente, a un regime di simbolizzazione, in grado di congiungere, malgrado (o grazie a) tutti i limiti dell’essere umano, il mondo dell’immaginario a quello del reale.

Questo lento e spesso spiazzante percorso non lineare, favorito dall’analisi, e il cui esito è sempre imprevedibile, qualora venga effettuato con onesta dedizione e con tenacia conduce, senza dubbio, a una vita psichicamente più autentica e creativa.

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Francesco Frigione è psicologo e psicodrammatista analitico, psicoterapeuta individuale e di gruppo, docente di psicodramma in una scuola di specializzazione per psicoterapeuti, formatore di educatori e studenti, autore di progetti psico-socio-culturali in Italia e all’estero. Nato a Napoli, vive e lavora a Roma e a Ischia. Ha fondato e dirige il webzine e il quadrimestrale internazionali “Animamediatica”.

Contatti

E-mail: francescofrigione62@gmail.it

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