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Perché non ha senso parlare di razze umane

Anno nuovo, storie vecchie: per quanto riguarda l’argomento di cui discuto qui, si può tranquillamente sostituire la parola “anno” con “secolo”. Il razzismo sembra ancora essere presente in alcune società umane, come dimostrano i casi di violenza sulla popolazione di colore negli Stati Uniti d’America o il conflitto ancora in corso in Darfur (Sudan).

Il “peccato originale” fu “commesso” da Georges-Louis Leclerc de Buffon, naturalista e matematico francese vissuto nel ‘700, considerato da alcuni esperti il padre dell’antropologia. Egli introdusse in biologia la parola “razza” (ma non “razzismo”) nel suo “Histoire naturelle”, importandola dal lessico usato dagli allevatori dei cavalli (“haraz”). In biologia, però, essa indica varietà di animali domestici ottenuti tramite la selezione artificiale. Buffon non aveva ancora il concetto di selezione artificiale separata da quella naturale e soprattutto l’uso del termine da parte sua non aveva carattere discriminatorio, bensì cercava di comprendere come si era originata la variabilità della nostra specie.

Dalla scelta di Buffon a tentare di legittimare prese di posizione e classificazioni a favore della “superiorità” di gruppi etnici a discapito di altri fino ai terribili genocidi che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli, il passo fu breve. Tuttavia, quando tentarono di riunire la nostra variabilità interspecifica all’interno di categorie valide, gli antropologi si trovarono davanti dei problemi a livello scientifico. Innanzitutto, è presente un problema tipologico: ribadisco che il termine razza è adatta solo alle specie domestiche (il cane, per esempio), dato che nella selezione artificiale si possono “pilotare” gli incroci per ottenere degli standard; in quella naturale ciò non è possibile e porta al massimo a sottospecie o varianti geografiche, non certo a rappresentanti di tipologie standardizzate.

In più, è risultato totalmente impossibile inserire, all’interno di categorie inoppugnabilmente oggettive e condivise da tutti, i gruppi etnici umani per una serie di ragioni. Innanzitutto, non è possibile marcare i confini di una varietà geografica rispetto all’altra usando il genotipo (ciò che è “scritto” nei geni) o il fenotipo (ciò che “vediamo”): ciò è dovuto al fatto che la variabilità di molti caratteri segue andamenti di tipo geografico e di conseguenza non si notano delle forme discontinue, ovvero separabili: esempio di ciò è il colore della pelle, data la presenza di diverse sfumature del carattere preso in considerazione. In più, il cline (ovvero l’andamento) di ogni carattere è indipendente rispetto ad altri (ad esempio il colore della pelle varia con la latitudine, ovvero a seconda se “siamo a nord o sud”, mentre la forma degli occhi a seconda della longitudine, se “siamo ad est o ovest”). Infine, è praticamente impossibile identificare un grado di variabilità interna ai vari gruppi, dato che siamo più diversi internamente rispetto ad individui appartenenti a gruppi differenti; due europei presi a caso possono risultare fenotipicamente o genotipicamente molto più diversi rispetto ad un africano o un arabo. A tal proposito, è utile citare una oramai leggendaria pubblicazione su “Science” del 1987: essa mostra come gli africani risultano i più diversificati al loro interno (usando il DNA mitocondriale, che non ricombina ed è ereditato solo da parte materna); ciò è dovuto al fatto che le nostre origini partono proprio dall’Africa e dunque le popolazioni locali sono quelle che si sono “evolute” per più tempo. Non avrebbe dunque senso parlare di una singola “razza africana”. “Last but not least”, nella nostra specie la diversità viene ridotta dalle nostre straordinarie capacità anche culturali di adattamento ai vari tipi di ambienti, dalla nostra abnorme densità di popolazione che favorisce il flusso genico (flusso di geni tra popolazioni contigue) e dalle continue migrazioni che hanno caratterizzato la nostra storia.

Quindi, come esplicato, non esistono categorie valide nelle quali inserire la diversità umana in modo oggettivo. Fa sorridere in maniera amara come, nel XXI secolo, passati diversi cosiddetti “zeitgeist” (“spiriti dei tempi”, i “climi” culturali di una determinata epoca), ci si è ancora obbligati a parlare del perché il razzismo è sbagliato e di come esso non abbia alcuna validità scientifica. Finirà mai di esistere questo “stato d’animo, atteggiamento emozionale, impulso deviato”, come brillantemente definito dal professor Giorgio Manzi nel suo “Il grande racconto dell’evoluzione umana”?

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*BsC in STeNa e specializzando in Scienze della Natura presso “La Sapienza” di Roma

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