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‘Inno al Sole’ a Villa Arbusto, se i Miti rinascono all’alba

Gianluca Castagna | Lacco Ameno – Certi incantesimi non li puoi spiegare. Ti siedi al buio, in questo caso il buio del cielo, e lasci che le storie ti incantino, ti portino via. A dialogare con i miti dell’antichità classica e riportarli in vita, sulla scena, forse per decifrare meglio una realtà che, a raccontarla per quella che è (diventata), appare troppo complicata e sfuggente, dura e inaccettabile.
foto principaleOra sarà anche vero che i sogni muoiono all’alba e il momento più buio della notte è quello che la precede, ma è stato proprio in quel fatale passaggio tra la notte e il giorno che i numerosi spettatori dell’Inno al Sole messo in scena da Salvatore Ronga a Villa Arbusto, hanno potuto assistere all’apparizione, in sembianze umane, di verità ancestrali e mitologie immortali, di avvertirne la potenza originaria e coglierne la raffigurazione simbolica, in uno scambio assai riuscito dell’uomo come divinità e del dio come creatura.
Lo spettacolo teatrale, cuore centrale della rassegna “Metamorphosis”, è andato in scena alle 5 di domenica mattina sulle terrazze del Museo archeologico di Pithecusae. Come in un rituale senza tempo, s’intrecciano tre storie intorno al fuoco del braciere: il mito di Demetra e la scomparsa di sua figlia Kore, uno dei più antichi miti agrari sul tempo ciclico delle stagioni, elaborato prima dalla cultura greca e trasmesso poi a quella latina; il diario ischitano di Norman Douglas, scrittore britannico innamorato del Golfo di Napoli; la solitudine di un marinaio nelle ore trascorse durante la pesca notturna, mentre dal buio, dalla memoria, dai gorghi assassini e forse dall’Aldilà, affiorano creature misteriose, protagoniste di mille altri racconti.
Storie che guardano profondamente nell’animo umano, tanto da trovare le chiavi per riferire (quindi manifestare) tutte le nostre debolezze e paure, così come i vizi e le virtù, le luci e le ombre.

Foto quintaLucianna De Falco è una dea-donna-madre, dispensatrice di ogni forma di vita o di morte, totalità libera del Femminile, anche quella più licenziosa. Demetra come forza primordiale della natura e della sua ciclicità, inizio e fine di tutto, potenza terribile e persino magica, santa e strega, serva e padrona. Ma anche incarnazione di una sessualità femminile irriverente come aspetto della sacralità, segno di intelligenza e saggezza (nell’incontro/amplesso tra divinità e uomini – recita – sono sempre questi ultimi a perderci).
E’ l’occasione per scatenare quel riso che salva la dea dalla depressione e le restituisce l’energia necessaria per continuare la ricerca della figlia; con l’aiuto di Baubo, della vecchia Ecate e di Elio, il Sole, la ricerca avrà buon esito. L’abito nero in cui la divinità si dibatte come in una taranta tribale e tellurica, lascia il posto a una veste di giallo oro. Kore ritornerà dalla madre, anche solo per sei mesi.
Il mondo, la terra e il ventre delle donne riprenderanno a fiorire.
La Demetra di Lucianna De Falco è catartica, eversiva, invasata, feroce. Sollecitata da una danza dell’inconscio, nella quale i repentini cambi di registro (forse troppi?) provano a catturare quel surplus mitologico, primigenio e irrazionale, di un età dell’oro in cui l’umanità alimentava un contatto puro con il mondo e l’universo. Fantasie, sogni, deliri, angosce, allucinazioni, ribellioni e dolori: complici le straordinarie soluzioni scenografiche di Bettina Buttgen, il belvedere di Villa Arbusto nel crepuscolo che precede l’alba diventa spazio per una sorta di odissea nella memoria (e nel sangue) che ripercorre una vicenda già narrata, rendendola nuovamente viva grazie alla capacità evocativa dell’attrice foriana e alla solida drammaturgia di Salvatore Ronga, secondo cui “anche il sacro deve passare attraverso lo scandalo”.

Foto secondariaGiovangiuseppe D’Ambra è un pescatore di ieri (e di sempre) intrappolato (anche scenicamente) tra i flutti di un mare voluttuoso, nero e mortale. Flashback di memorie in rotta di collisione con il bestiario sognato nelle stagioni di pesca lontano da casa, in altri mari faticosi e implacabili. Le notti infinite dei naufraghi tra tempeste, balene, mostri e sirene, creature che preannunciano l’arrivo di una bufera e accompagnano i marinai nella bella morte, compagne ideali fra i due regni del ‘prima’ e del ‘poi’, e sempre il fatale trapasso a far da spartiacque. Le sirene sono archetipi muliebri, primordiali e benevoli, che solo la misoginia maschile ha (definitivamente?) inchiodato a incarnazione di femmine che stregano e seducono con la grazia e il dolce canto. In una notte senza fine la favola amara del pescatore è un movimento che lo allontana sempre più dalla terraferma per condurlo nelle fauci divoranti e letali del mondo degli abissi.
E’ come se prendesse vita la scena, quasi horror, raffigurata nel Cratere del Naufragio, uno dei tesori archeologici custoditi nelle sale del Museo: sotto la grande nave capovolta, i pescatori sono in balia delle onde e cercano scampo nuotando fra i pesci, mentre uno di loro è già finito con la testa nella bocca di una creatura marina. Un’immagine drammatica, spaventosa, testimonianza immortale dell’antica paura (e della suprema eccitazione) che l’uomo prova di fronte all’ignoto e al mistero del Mito.

Foto quartaTocca a Roberto Scotto Pagliara dare voce al vagabondaggio notturno dello scrittore Norman Douglas, descritto tra le pagine dei suoi diari ischitani. Partendo dal borgo di Celsa, seguendo il sentiero della colata lavica, il romanziere cerca la natura, il silenzio e l’oscurità, condizioni indispensabili per ridere dei suoi nemici e forse dell’umanità. E’ il bisogno di affondare mani e piedi nella carne, nell’afflizione, nell’angoscia, tra case abbandonate e grotte di montagna, lontano quanto più possibile dalle camere d’albergo, dove non è facile essere lucidi, fare pace con se stessi e i propri fantasmi, abbandonarsi (al)leggeri(ti) a una risata di salvezza. La musica di Scotto Pagliara, eseguita con Daniele Ubjk, alterna momenti d’intenso lirismo e di oscura inquietudine.

Forse solo attraverso il passaggio all’inferno, un inferno di rabbia, costernazione e dolore, si giunge alla verità. La forma solenne di una ritualità collettiva senza tempo si compie, per i tre personaggi, e certo anche per gli spettatori, nell’atteso Inno al Sole di Akhenaton. Nascosto da nuvoloni dispettosi che nulla possono contro la benefica percezione della luce, la precaria tranquillità del giorno, la limpida ciclicità del tempo.
(photo: Lucia De Luise, Enzo Rando)
Foto sesta

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