LE OPINIONI

IL COMMENTO I migranti e la cultura dell’accoglienza

DI ANTIMO PUCA

Nel 2010 erano 388 i super ricchi che avevano un patrimonio che equivaleva a quello della metà più povera dell’umanità. Nel 2017 Oxfam diede un altro numero: si era passati da 388 a 8 super ricchi. Questi dicono in sintesi la velocità con cui sta accentuando la distanza tra quelli che hanno moltissimo e quelli che hanno poco. Ci sono bombe che vengono prodotte in Italia da una ditta tedesca e che vengono vendute a paesi belligeranti come quelli che hanno combattuto e combattono in Yemen. La disuguaglianza è frutto di guerre che “si vedono” e soprattutto di guerre che “non si vedono”, condotte con le armi tradizionali o con le armi dell’economia attuale. Francesco, il Papa, al momento è l’unica grande personalità a livello mondiale, tra coloro che hanno una “cattedra morale” e sono in grado di farsi ascoltare, che ha il coraggio di dire a chiare note che “questa economia uccide”. E’ l’unico che ha questa temerarietà e questa saggezza in un momento in cui molti ormai si sono arresi al trend dominante. 

Ogni persona è diversa, nelle proprie preferenze e aspirazioni e nelle proprie circostanze, e il concetto di uguaglianza non va inteso come uguaglianza pregiudiziale dei “risultati finali” (es.: reddito, ricchezza, salute, istruzione, ecc.) ma in termini di libertà sostanziale sostenibile, cioè di possibilità sostanziale di raggiungere risultati uguali. Nella nostra società si parla molto e in questi ultimi mesi prepotentemente associato ai migranti. La narrazione che sembra prevalere nel senso comune è quella che attribuisce alla presenza dei migranti il peggioramento delle condizioni socio-economiche degli italiani, soprattutto di ultimi e penultimi e della sicurezza anche quando i dati smentiscono queste percezioni. Il danno più permanente è l’incattivimento, l’indurimento di tutti i rapporti sociali. La vera ideologia del nostro tempo è questo ri-sentimento. Da una parte il cattivismo, dall’altra il perfettismo. C’è posto solo per quelli che rispondono ai canoni del successo sia dal punto di vista biologico che psicologico e c’è posto solo per gli omologhi. La questione della ritornante xenofobia, che sta già sfociando purtroppo in razzismo aperto, è il frutto di questo tipo di predicazione e di questa convinzione. E’ giusto citare il dato della distanza tra la realtà e la percezione nella vita delle persone, ma spesso quello che in essa conta nella vita è la condizione nella quale ci si sente e rispetto a questo c’è una grande responsabilità dei comunicatori. Dobbiamo smettere di ripetere, nel nome di una falsa par condicio, le parole di odio che vengono messe in circolazione. E’ vero che tutti hanno il diritto di dire la propria, certo. Ma ci sono parole che non possono essere ripetute acriticamente e supinamente. Perché sono parole-coltello, parole-mazza, parole-fucile, che, se non vengono domate e quando necessario contraddette mettendo sul piatto con tutta la chiarezza e la forza necessaria i dati che le svuotano, sono pericolosissime: tagliano, sbriciolano, ammazzano.

Faccio un esempio: sono rimasto sbalordito quando ho visto e ascoltato un’intervista a un Ministro della Repubblica, trasmessa dal servizio pubblico radiotelevisivo, dove si sostiene che l’aver ridotto l’arrivo via mare dei migranti sta garantendo più sicurezza agli italiani. Questo cozza con un dato di realtà, ovvero che negli anni di maggiore minaccia terroristica e di maggiore immigrazione irregolare via mare, l’Italia non ha subito nessun attentato. Non c’è stata correlazione tra il rischio e la realtà che è stata vissuta. Ecco: non si può raccontare l’esatto contrario del reale o lasciare che questo venga fatto, perché questo “incista” sempre di più nei pensieri della gente semplice l’idea che il migrante sia un potenziale assalitore. E questo è un capovolgimento drammatico del senso del tempo che viviamo. Che è duro, ma anche bello. Nella storia le migrazioni di massa sono state condotte con le armi in pugno: popoli che si trasferivano perché cacciati da altri o per una spinta imperialista a conquistare migliori terre di altri. Qui siamo di fronte a un fenomeno in cui la gente si muove disarmata e chiede aiuto e chiede di partecipare alla costruzione di altre società. Se non sappiamo cogliere questo, nella sua verità e nella sua forza, e nella drammaticità anche di certi processi, come un segno positivo di rottura rispetto ad altre fasi storiche che abbiamo vissuto, siamo gente senza sguardo, gente senza coscienza e senza il senso della storia. Quello che rimprovero alla classe politica è di non accompagnare una consapevolezza piena di quello che sta accadendo, e di enfatizzare gli aspetti negativi che umiliano le persone coinvolte ma anche il senso della stagione che stiamo vivendo, rendendola peggiore di quello che è. Sono sempre stato contro la falsa retorica del multiculturalismo che è la strada per la creazione di ghetti giustapposti. I processi che ci devono interessare sono quelli interculturali, che mettono in comunicazione le culture perché queste crescono assumendosi e rispettandosi le une con le altre. Noi italiani siamo l’esempio più evidente nella nostra condizione di paese ponte tra nord e sud, est e ovest.

Abbiamo creato una cultura straordinaria, capace di bellezza e profondità, capace di sommare tutte le differenze – anche somatiche – del Mediterraneo con le nostre, di convertire in forza le nostre debolezze e di realizzare nel corso del tempo una straordinaria unità in una terra inesorabilmente plurale. E questo grazie a un processo interculturale, e non perché abbiamo difeso orgogliosamente una cultura originaria, murata in se stessa e non comunicante con niente e con nessuno. Mi fa male vedere che si torna a raccontare e proporre l’opposto, illudendo la nostra gente che il modo per far sopravvivere un popolo, renderlo più sicuro e lanciarlo verso il futuro sia quello di chiudersi in un cantuccio. Quello invece è l’unico modo per morire e per perdersi, smarrendo peraltro il senso della propria cultura. Ovviamente la realtà non è tutta nera. Esistono nel paese esperienze di accoglienza e resilienza e una moltitudine di pratiche messe in atto dalle organizzazioni di cittadinanza attiva. E’ chiaro che ci sono dei soggetti principalmente impegnati, tanti pezzi della realtà italiana che sono pezzi istituzionali, delle associazioni, della cooperazione, dell’impresa tradizionale. La realtà vera di questo paese è quella di un paese in cui tanta gente spinge verso la direzione giusta. Ognuno per la parte di responsabilità che ha e per il ruolo che esercita sia nello Stato sia nella società civile. E’ chiaro che ci sono le grandi agenzie. Il ruolo che gioca la chiesa cattolica e le chiese in generale, ad esempio. Penso con grande orgoglio al segno ecumenico dei corridoi umanitari che vengono gestiti dai cristiani di diverse denominazioni d’intesa con i governi che si sono succeduti, indicando all’Europa un modello.

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C’è anche tutto quello che si muove nella vita delle città: a Roma penso alla rete Baobab, in Lombardia a un’infinità di reti diffuse. Ricordo sempre che, nel momento del massimo afflusso di siriani in fuga dalla guerra, Milano è stata capace di mettere in campo con le sue realtà associative ma anche con singoli e singole famiglie, degli atti di solidarietà e di vicinanza belli e d’incredibile semplicità. La cosa che mi ha ferito è che queste persone in fuga sono state lasciate andare altrove senza pensare a quello che portavano come ricchezza e non solo come sofferenza. Tutti quelli che riescono a concepire le persone non come un problema ma come una risorsa, sono quelli che stanno dimostrando che esiste un altro modo di vivere, di prendere la vita, se volete di accoglierla. E’ un altro modo, che non è buonista, è la cosa buona che accade davvero nella realtà italiana. Ci sono 5 milioni di “stranieri residenti”, come li definirebbe anche filosoficamente Donatella De Cesare, e io sento, vedo e – da cronista – testimonio che sono nuovi italiani. Penso alla battaglia sulla cittadinanza per gli 800.000 ragazzi che sono compagni di scuola e di giochi dei nostri figli e delle nostre figlie. La gente che dice “no”, se la vedesse così, capirebbe più facilmente, capirebbe che non sono estranei tra di noi, ma sono parte della nostra vita, che anche loro sono già figli nostri. Io sono relativamente ottimista, anche se so che esiste la “predicazione” che ha accentuato i sospetti e messo esclamativi feroci alle condizioni critiche che si sperimentano in tante periferie e in alcune realtà urbane. Aggiungo infine, tra i soggetti attivi anche tanti imprenditori straordinari, pezzi di impresa tradizionale che sono assolutamente dentro la logica della valorizzazione delle persone che “lavorano con” te… Questo, tra l’altro, è da sempre un bel modo di fare degli italiani.

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