LE OPINIONI

Quando il lavoro diventa una droga: il workaholism

Quando parliamo di dipendenze pensiero va a tutte quelle sostanze, come le droghe, il tabacco, l’alcool, che, immesse nel nostro corpo, procurano una temporanea forma di piacere alla quale non si riesce più a rinunciare. Nel 2013, in occasione della pubblicazione della quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, cambia qualcosa: per la prima volta si parla di dipendenze patologiche comportamentali. In cosa si differenziano rispetto alle altre dipendenze? Prima di tutto, nella dipendenza comportamentale non si fa ricorso ad una sostanza esterna (infatti viene talvolta definita non-substance-related addiction). Nelle dipendenze comportamentali una persona si sente spinta ad attuare un comportamento che funge da premio, un’azione che determina piacere e che viene replicata più e più volte. La cosa interessante è che in queste forme di dipendenza il comportamento che funge da “droga” è socialmente accettato. Alcuni esempi sono la dipendenza da shopping, da gioco, da sesso, da internet, da sport. Insomma, non è vietato fare acquisti nei negozi, allenarsi, avere una vita sessuale, giocare. Anzi, sono tutti comportamenti spesso associati al benessere e alla felicità. Per quanto possano essere espressione di pulsioni sane e vitali, essi possono diventare, in alcune persone, ripetitivi, eccessivi e necessari, fino ad arrivare alla compromissione in molte aree significative della vita dell’individuo: sociale, lavorativa, economica, familiare, relazionale. Trattandosi, come abbiamo detto, di comportamenti socialmente accettati, non generano sempre preoccupazione, sono frequentemente sottovalutati e difficilmente giungono all’attenzione di un professionista. Tra le dipendenze comportamentali c’è anche quella da lavoro. Si parla in questo caso di workaholism (chiamato anche work addiction).

Il primo a parlare di workaholism fu Oates nel 1971, il quale parlò di un impulso irrefrenabile a lavorare in modo continuativo e incessante. Le caratteristiche di questa addiction sono, prima di tutto, la quantità di tempo eccessiva dedicata al lavoro (più di 12 ore al giorno, inclusi i fine settimana e i periodi di vacanza), che non sono giustificati al bisogno di denaro o a richieste fatte dai superiori. Quando il “workaholic” non lavora, si preoccupa continuamente delle scadenze, degli impegni, degli appuntamenti della settimana, di ogni possibile complicazione che potrebbe insorgere. Pensieri ossessivi sul lavoro emergono continuamente, monopolizzando i discorsi anche a casa e con gli amici. La persona può abusare di sostanze eccitanti, come il caffè, per tenersi sveglio e poter lavorare meglio. A lungo andare, la salute inizia a risentirne: irritabilità, insonnia, somatizzazioni, disturbi d’ansia, aumento di peso, sbalzi di umore compromettono il benessere della persona. Compaiono veri e propri sintomi di astinenza da lavoro, esattamente come accade per le altre forme di dipendenza.

A questo punto è necessario fare una doverosa precisazione: il dipendente da lavoro non fa tutto questo per una necessità economica o perché gli viene chiesto di farlo, pena il licenziamento. Nel workaholism la persona continua a lavorare nonostante siano assenti particolari richieste organizzative o necessità finanziarie: lo fa spinto motivato da una spinta interna, da un bisogno intrinseco. Detto in altre parole, lo fa perché si sente meglio (almeno inizialmente, come in tutte le dipendenze).

Ma maniaci del lavoro si nasce o si diventa? Sicuramente le persone che tendono a sviluppare questa dipendenza nascono con una sorta di vulnerabilità data dall’ambiente familiare in cui sono cresciuti: standard genitoriali elevati, grande importanza data alla performance, attenzioni concesse ai figli solo in presenza di bei voti e ottimi risultati sportivi. Il bambino impara che per ottenere l’affetto dei genitori deve essere bravo, e continuerà per il resto della vita a inseguire “lo scintillio” negli occhi del genitore orgoglioso. A questo si aggiungono anche caratteristiche di personalità, come il perfezionismo, l’ossessività e la rigidità, oltre alla presenza di ambiente lavorativo che premia il duro lavoro. Ma dietro alla dipendenza da lavoro c’è anche il bisogno di tenere sotto controllo le emozioni, silenziare la rabbia, la tristezza, il senso di colpa e la vergogna, legati molto spesso ad un senso di inadeguatezza e indegnità. Catapultarsi nel lavoro consente anche di giustificare a se stessi e agli altri l’assenza di relazioni personali significative o la propria chiusura emotiva.

Il trattamento del workaholism è particolarmente complesso, in quanto non può essere sempre possibile astenersi dal comportamento oggetto di dipendenza, cioè smettere di lavorare. Fondamentale sarà lavorare sul riconoscimento e sull’accettazione delle proprie emozioni, parallelamente ad un intervento di pianificazione del lavoro che tenga conto della necessità di riservarsi ore di “disintossicazione” dagli impegni.

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Articolo della dooressa Tiziana Di Scala (tel. 3208531292)

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Liberamente” è curata da Ilaria Castagna, psicologa, laureata presso l’Università degli Studi de L’Aquila, specializzanda presso la Scuola di Psicoterapia Cogniva Comportamentale di Caserta A.T. BeckTel: 3456260689Email: castagna.ilaria@yahoo.com

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