CULTURA & SOCIETA'

Quando “Li Turchi” assaltarono la vecchia chiesa di Santa Restituta

La storia antica dell’ isola d’ Ischia è ricca di episodi leggendari, se così è lecito classificarli, di popolare clamore locale, vissuti in epoche diverse e tramandati a noi da chi li ha voluti raccontare e renderli perpetui, appunto per la storia. Quello delle campane della vecchia chiesa di Santa Restituta in fondo al mare al largo di Lacco Ameno è uno di questi. Quando si tira i ballo Santa Restituta per fatti di tal genere, si pensa subito ad un evento importantissimo per i lacchesi, specie per quelli che danno particolare  importanza ai detti episodi storici o leggendari che siano ed amano custodirli nel proprio immaginario  come preziosi cimeli emblematici.

Infatti, un particolare fascino ha sempre suscitato la vicenda delle campane di S. Restituta, su cui molto ha lavorato la fantasia popolare. Due accenni di esse si hanno in un documento pontificio emanato da Papa Sisto V il 13 gennaio 1590: “ecclesia cum campanis et cortili”, e in un passo del Capaccio, storico del ‘500: “dalla torre di Monte Vico di Lacco partiva l’allarme e le campane di S. Restituta fuse in quel tempo suonavano a distesa” (si riferisce lo storico alle scorribande che i Turchi non di rado facevano sull’isola d’Ischia). Allora infatti questo era il più grande flagello per gli isolani; molto probabilmente gli assalti erano effettuati a partire dalla primavera: di ciò si conserva il ricordo in alcuni stornelli popolari che vogliono indicare la fine delle invasioni: “A S. Restituta le fave so arrennute, le quaglie so fernute e li turchi so partute”. Ma nei primi anni del 1600 l’assalto non fu fermato e i Turchi, penetrati nella cappella, ove era la statua della Vergine, ne saggiarono con un colpo di scimitarra il legno dorato e delusi, balzarono sul campanile e rubarono le campane, avendole ritenuto d’oro. Dopo aver assistito allo scempio dei rapinatori e al trasporto delle campane sulle navi, i coloni dispersi sulle colline vedono i pirati apprestarsi a partire col prezioso carico.

Il capitano della galea dà ordine di salpare le ancore; ma ecco che comincia a soffiare un vento impetuoso, il mare si increspa sempre di più, le onde diventano sempre più alte e spumeggianti, la nave ora si inabissa nei gorghi, ora è sospinta in elevazione sull’acqua. Le campane sono gettate in mare per alleggerire il carico. Un solo pensiero in quanti erano sulle colline, le andremo a ripescare. E quando tornò il sereno, i lacchesi andarono per ripescare le campane, le agganciavano, provavano a tirare: fatica sprecata ed inutile. Nel corso dei secoli i vari tentativi, ripensati dalla fantasia popolare, non hanno avuto esito migliore. E la notte dal sedici al diciassette maggio quelle campane in fondo al mare dondolano a festa; e le anime belle che si recano sulla riva e restano in ascolto dicono che quei concerti sono paradisiaci: sono le armonie della verginità e del martirio! Don Pasquale Polito ritiene che forse da questa tradizione popolare, Renan derivò la leggenda della sepolta cattedrale di Is. «La lessi, la prima volta, mezzo secolo fa, scrive Polito; in seguito l’ho riletta altre volte e sempre vi ho trovato delle affinità.

Mi sono deciso a trascriverla, convinto che non sia una divagazione, ma un arricchimento del discorso. “Una delle leggende più diffuse in Bretagna – riporta Renan – è quella di una pretesa città di Is, che in un’età non conosciuta sarebbe stata inghiottita dal mare. In diversi punti della costa viene mostrata l’area occupata da codesta città favolosa, e i pescatori ne fanno strani racconti. Nei giorni di tempesta – assicurano – si scorgono nel cavo dei marosi le punte delle guglie delle sue chiese; nei giorni di calma, si ode venire su dall’abisso il suono delle sue campane modulante l’inno del giorno. Mi pare spesso di avere in fondo al cuore una città di Is, che suoni ancora campane, ostinate a convocare ai sacri uffici dei fedeli che non le intendono più. Talvolta mi soffermo a porgere l’orecchio a codeste tremule vibrazioni, che mi paiono venire da profondità sconfinate, quasi voci d’altro mondo. Soprattutto all’approssimarsi della vecchiaia ho preso diletto, durante il periodo estivo, a raccogliere siffatti lontani sussurri”.

Foto Giovan Giuseppe Lubrano                                                                        antoniolubrano1941@gmail.com

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