Raustella: dove le grotte raccontano e i baffi custodiscono memorie
Cantina Raustella, antica realtà contadina nel cuore di Fontana, fondata oltre 300 anni fa da nonno Francesco “Raustella” Mattera. Restaurata dal figlio Giuseppe e animata oggi dal nipote Francesco, la cantina è un luogo unico dove tradizione, oggetti d’antiquariato e sapori autentici si fondono in un’esperienza sensoriale. Tra grotte, palmenti e convivialità, Raustella è un viaggio nell’anima più vera dell’isola

Tra le viscere antiche del Monte Epomeo, nel punto più alto e silenzioso dell’isola d’Ischia, si nasconde un luogo dove il tempo non ha fretta e il vino profuma ancora di storia e di famiglia. La Cantina Raustella non è solo una cantina: è un racconto inciso nella roccia, un’eredità fatta di mani operose, di occhi che brillano nel ricordo e di una passione che arde da più di tre secoli.
Tutto ebbe inizio oltre 300 anni fa, a Serrara Fontana, quando i contadini ischitani scavarono nella pietra tufacea per dare vita a spazi dove conservare e produrre il “nettare degli dei”. Tra loro c’era anche nonno Francesco Mattera, soprannominato “Raustella” per quel colore acceso delle guance che lo rendeva simile a un’aragosta, e che oggi dona il nome a questa cantina unica. Fino a 90 anni ha custodito e tramandato il rito antico del vino, non con formule scritte ma con gesti, sguardi, e il rispetto profondo per la terra. Oggi, il suo spirito aleggia ancora tra le botti, le grotte e gli oggetti che raccontano una vita intera.
A raccogliere il testimone è stato il figlio Giuseppe, che ha restaurato la cantina con amore e un’attenzione quasi religiosa per ogni dettaglio. Collezionista appassionato, ha trasformato gli spazi in un piccolo museo contadino, dove ogni utensile, ogni bottiglia, ogni pezzo di legno racconta una memoria. Varcare la soglia della Cantina Raustella significa compiere un viaggio attraverso sette ambienti incantati, dove le volte ad ogiva e gli sfiatatoi creano un’atmosfera sospesa, quasi sacra.
C’è la grotta nascosta, che un tempo ospitava i vini invecchiati e oggi custodisce un antico presepe napoletano; c’è la “vasca dell’amore”, il primo palmento oggi adibito a un angolo suggestivo che accoglie gli ospiti con un senso di stupore primordiale; c’è la grotta del torchio, con il suo palmento scavato e l’antico torchio che sa ancora di mosto e di fatica. E poi l’“angolo del focolare”, con la cassapanca dei ricordi, un piccolo scrigno di emozioni che profuma di legna e passato.
All’esterno, la “terrazza degli amici” è un inno alla convivialità: sotto una tettoia rustica, circondati da pigne scolpite nel tufo, lampadari in ferro battuto e piennoli rossi e gialli che pendono come gioielli maturi, si gustano sapori autentici. A parlare è la terra, nei bucatini al sugo di coniglio, nei taglieri di salumi e verdure dell’orto, nella bruschetta ischitana che esplode in bocca come un’estate.
La cantina non è solo un luogo da visitare, ma un’esperienza da vivere: è il respiro della montagna, il calore della famiglia, la forza dei valori contadini che qui, miracolosamente, non si sono mai persi. Nell’orto coltivato con cura, tra zucche, zucchine, fichi essiccati e trecce d’aglio, si sente ancora il battito sincero di una civiltà che non ha bisogno di parole per farsi amare.
Oggi, accanto a Giuseppe, c’è il figlio Francesco, anima pulsante del ristorante: un personaggio che sembra uscito da un romanzo mediterraneo, e che invece è vivo, vero, lì, tra i profumi di terra e di mosto. Con il suo inconfondibile baffo alla Salvador Dalì — sottile, ardito, elegantemente ribelle — Francesco non accoglie gli ospiti: li travolge. Il suo aperitivo di benvenuto non è solo un gesto d’ospitalità, è un inno alla vita, un brindisi sincero alla gioia, un rito che spezza il tempo e apre il cuore.
Quelli di Francesco non sono semplici baffi, sono un manifesto. Un segno di riconoscimento, un piccolo atto di resistenza poetica in un mondo che corre troppo. Curati con la stessa dedizione con cui si sceglie il vino, sottili e arditi come quelli di Dalí, ma con un’anima ischitana che li rende unici. Chi li guarda per la prima volta sorride, ma chi lo conosce sa che quei baffi raccontano molto più di una scelta estetica: raccontano la storia di un uomo che vive la cantina come un palcoscenico dell’anima.
In Francesco c’è qualcosa di teatrale, ma nulla di finto. È passione pura, istinto, amore per la sua terra e per chi viene a scoprirla. Quando racconta della cantina, non lo fa con parole studiate, ma con l’intensità di chi ci è nato dentro, tra quei muri umidi di storia e quegli odori che sanno di legno, di vino, di pane caldo. Ti versa un bicchiere e insieme ti versa un pezzo della sua anima. Ti guarda negli occhi e ride, come a dire: “Benvenuto, ora sei uno di noi”.
Francesco è la cantina che cammina, che parla, che danza tra i tavoli con un piatto fumante in mano e un sorriso che sa di mare. È il nipote di Raustella, sì, ma è anche il suo spirito reincarnato: sorridente come il nonno, generoso di storie e d’affetto, pronto a far sentire chiunque a casa, tra un pezzo di coniglio all’ischitana e un sorso di quel vino che, lì, più che un prodotto è un’eredità di sangue.
Alla Cantina Raustella si viene per bere il vino, ma si resta per ascoltare una storia. Una storia che non smette di fermentare, come il mosto nella pietra, sospinta dal tempo e custodita dall’amore.






