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Il trattato Inf e i due giornalisti ischitani a Washington

ISCHIA. Ci scorgemmo nell’affollata conferenza stampa alla Casa Bianca e ci salutammo con un rapido cenno del capo. Solo dopo, alla fine, riuscimmo ad avvicinarci per un fugace abbraccio. Poi corremmo verso i rispettivi alberghi in Pensilvanya Avenue”. Almerico Di Meglio, nel dicembre 1987 inviato del “Mattino” a Washington dove Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov firmarono lo storico trattato INF (l’Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) ricorda così l’incontro con un altro “ischitano”, d’adozione, Franco Bucarelli, inviato dei tg di Mediaset.

Riusciste a rivedervi in quei giorni in cui il mondo aveva gli occhi puntati sulla capitale americana attraverso quelli degli inviati dei mass media?

«Solo una volta riuscimmo a scambiarci un po’ d’impressioni. Facemmo colazione allo stesso tavolo, ed erano colazioni abbondanti perché il programma dell’incontro e il fuso orario ostile, ben sei ore di ‘ritardo’, non consentivano certo una pausa pranzo. E’ trascorso molto tempo, più di trent’anni, ma ricordo che mi colpì il fatto che Franco mentre mi anticipava quanto avrebbe fatto, o voluto fare, tra interviste e riprese tv, aggiunse pure che, profittando d’essere negli USA, avrebbe tentato di strappare una permanenza più lunga per un reportage su non so più quale tema. Era un tipo vulcanico, Bucarelli, poliedrico e bravissimo, ma egualmente rimasi allibito».

Non si poteva, anzi non si doveva pensare ad altro che al trattato INF?

«Sì. Mi pareva inconcepibile destinare un seppur minuscolo spazio della mente a qualcos’altro. Era davvero un giorno speciale per il mondo e l’ansia di fare al meglio il proprio lavoro attanagliava ogni giornalista testimone di quell’evento. Si trattava del primo trattato di disarmo atomico tra USA e URSS. Un trattato che metteva fine alla Guerra Fredda. I precedenti accordi, infatti, concernevano una determinata e bilanciata limitazione nello sviluppo e nell’aumento dei missili atomici delle due superpotenze planetarie. Questa intesa, invece, sanciva la prima riduzione di armi nucleari. La prima di una lunga serie, si sperava. Eravamo convinti che si fosse imboccata la strada del disarmo. O, almeno, di un rallentamento della corsa al riarmo. E non solo…».

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C’era dell’altro?

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«Sì, certamente, e per noi europei qualcosa di vitale. Infatti, i missili di cui si decideva una riduzione progressiva erano quelli a raggio intermedio. Cruise e Pershing da un lato, americano, e SS20 dall’altro, sovietico. Armi, cioè, che trasferivano al teatro europeo un eventuale conflitto tra le due superpotenze. I missili nucleari erano di tre tipi: strategici, con gittata intercontinentale; a raggio intermedio, appunto gli INF, gittata di un migliaio di km; e tattici, come mine e proiettili atomici da artiglieria. L’equilibrio del terrore, cioè della ’Mutua distruzione reciproca’, tra USA e URSS continuava ad essere affidato ai missili intercontinentali, ma con il dispiegamento degli INF le due superpotenze, prima di colpirsi direttamente, si sarebbero certamente affrontati su un campo di battaglia ‘terzo’, con la speranza di trovare intanto un compromesso, una via d’uscita prima del suicidio russo-americano e dell’intero pianeta. Non a caso, gli INF furono quasi subito definiti ‘euromissili’. Ecco perché quel trattato tra Reagan e Gorbaciov era di vitale importanza per l’Europa».

Quando erano stati installati in Europa?

«A cavallo degli anni Ottanta cominciò Mosca. L’URSS era all’apice della potenza. Gli USA avevano perso l’Iran e l’Afghanistan, nonché posizioni importanti in Africa e nello stesso Centramerica, con la penetrazione sandinista in Nicaragua. Mosca iniziò a schierare gli SS20 sia, come dicevo, per trasferire all’Europa il primo teatro eventuale di guerra, sia per impaurire così la stessa Europa occidentale e staccarla gradualmente dagli Stati Uniti. E infatti i movimenti pacifisti europei scesero in piazza contro l’installazione di Cruise e Pershing quando gli USA, con interessata fermezza, e l’Europa occidentale, con molti dubbi, decisero di reagire».

Durò poco questo confronto se si arrivò al trattato di Washington già l’8 dicembre del 1987…

«Certo. E’ avvenuto spesso nella storia che gli imperi crollassero in molto meno tempo di quanto ne avevano impiegato per espandersi. A differenza di altri imperi, quello sovietico si spegneva non per una guerra persa ma per sfinimento, per fallimento. Gorbaciov, che avrei intervistato alla vigilia del crollo finale dell’URSS nell’estate del 1991, tentò proprio a partire dal quel 1987 di far pace con l’Occidente e di salvare l’integrità territoriale dell’Unione Sovietica. Ma era troppo tardi. Eltsin riuscì a salvare almeno buona parte dell’impero russo zarista e ad affidare a Putin l’eredità di questo compito».

Ma ora Trump denuncia il Trattato INF, perché?

«Trump si disancora da quell’accordo perché teme non la Russia ma la Cina. Gli anni di Clinton sono stati disastrosi, la sua eredità è stato l’attacco alle Due Torri, il diffondersi fanatismo islamico. Bush junior indicò nella Cina il nuovo rivale o nemico dell’Occidente ma l’attacco alle Due Torri ribaltò le priorità della politica estera degli Stati Uniti. Oggi la Cina sviluppa, dopo circa quattro secoli, le forze militari navali, sviluppa la forza militare spaziale rubando tecnologia dagli USA e dall’Europa, e sviluppa la penetrazione nelle economie dell’Occidente e dell’Africa. Direttrici imperiali e obiettivi che un impero centralizzato può pianificare e perseguire con largo anticipo. Denunciare il Tratato INF è un mònito, anzi un ultimatum alla Cina».

Hai qualche altro ricordo personale oltre a quello con Franco Bucarelli?

«In realtà, sì. A Washingtonin quei giorni era inviato del ‘Messaggero’ anche uno dei due vicedirettori…managgia, mi sfugge il nome proprio adesso… Fu una gioiosa sorpresa e ci salutammo con grande cordialità: era l’esaminatore principale della commissione che mi aveva promosso giornalista professionista un bel po’ di anni prima. E ti aggiungo una noterella. Quasi un quindicennio dopo, sempre a Washington e sempre per un evento straordinario, gli attacchi del terrorismo islamico alle Due Torri e al Pentagono, mi capitò di lavorare quasi gomito a gomito per un paio di mesi con un altro giornalista di Canale 5, Claudio Rigoni».

 

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