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Sant’Antuono, una tradizione e i suoi detti

Di Michele Lubrano

A Sant’antuono basta pronunciare uno di questi detti antichj per sentirsi meglio“Chi festeggia Sant’Antuono, tutto l’anno ‘o pass ‘bbuon“. Oppure: Sant ‘Antuono, Maschere e suoni” ,“Sant’Antuono: pace dentro e guerra fuori“. Sono tante le invocazioni popolari rivolte a Sant’Antonio Abate, chiamato Sant’Antuono per non confonderlo con Sant’Antonio da Padova. Sant’Antuono è assai venerato sull’isola d’Ischia aForio, d in special modo e nell’omonima, piccola, frazione ai piedi del borgo di Campagnano, nel comune di Ischia. Ogni anno, il 17 gennaio, sull’isola, come, del resto, in tante parti d’Italia, vengono appiccati dei falò in nome del santo, nell’iconografia tradizionale raffigurato quasi sempre con un fiammella nella mano sinistra. Da un lato, il fuoco rimanda alla terribile lotta che questo monaco egiziano avrebbe condotto in vita contro le tentazioni del diavolo. Dall’altro, il fuoco simboleggia malattie insidiose come l’herpes zoster, la peste, lo scorbuto per le quali, non a caso, la pietà popolare invoca la protezione di Sant’Antonio Abate. Ma il fuoco, a Ischia, significa anche “Colata dell’Arso”, l’ultima, violenta, eruzione vulcanica che lambì le coste ischitane nel 1302. Sull’isola, il culto del santo è sicuramente successivo a questo tragico evento che seminò distruzione e morte da Fiaiano fin quasi sull’antico Lago De’ Bagni, cinque secoli dopo “aperto” a porto da Ferdinando II di Borbone. Serviva, perciò, un santo in grado di assicurare protezione contro la natura difficile e capricciosa dell’isola d’Ischia. Per le persone, innanzitutto, ma anche per il bestiame, tenuto conto dell’importanza dell’allevamento nell’antica economia domestica. E, infatti, Sant’Antuono è anche il protettore degli animali. Non è un caso che al santo, fossero molto devoti i “ciucciai” dell’isola d’Ischia, figure fondamentali nella precedente economia rurale del territorio. Per secoli sono stati loro a occuparsi del trasporto dell’uva coltivata lungo i pendii del Monte Epomeo, spesso in zone di difficile accesso. A Forio, proprio all’inizio del sentiero che porta al villaggio contadino di Santa Maria al Monte i ciucciai  eressero, nel 1905, una cappella votiva dedicata al santo. Nei pressi della cappella, la sorgente di Piellero (dal nome della località) che questi instancabili lavoratori utilizzavano come abbeveratoio per gli asini. Ancora oggi è nei pressi della cappella che viene appiccato il tradizionale “fucarazzo di Sant’Antuono“. A celebrare il rito della benedizione del fuoco e degli animali portati in processione, il parroco di San Michele Arcangelo, la parrocchia del popoloso quartiere di Monterone nella cui giurisdizione rientra la zona di Piellero. Una festa, quella di Sant’Antonio Abate, che oltre al significato benaugurale, svela anche il bisogno profondo di “essere comunità“. Il fuoco, infatti, è l’elemento dinamico per antonomasia, dal momento che resta sempre uguale a se stesso pur cambiando continuamente. È questo, del resto, l’auspicio di un buon cristiano: non smarrire la fede davanti alle tempeste della vita. È questo, ancor di più, il destino di chi nasce e vive su un’isola: un dato ineliminabile, qualunque cosa riservi l’esistenza. Il culto di sant’Antonio Abate, che morì nel 356, senza essersi mosso dall’Egitto, è diffuso ovunque, ed è l’esempio di come la storia di un santo non finisca con la sua vita terrena, ma continui in un rapporto attivo con gli uomini e con Dio, che lascia tracce nell’iconografia

 

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