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SICARIO – la recensione

Gianluca Castagna | Ischia – Non sappiamo da dove cominciare l’elogio di Denis Villeneuve, regista canadese di “Sicario”. La struggente resa visiva di un mondo perforato dalla violenza e annichilito dal sole (standing ovation per il direttore della fotografia, il coeniano Roger Deakins); la salda struttura drammatica, che non tenta di sciogliere le infinite domande sul prezzo che ci costa la sicurezza della democrazia americana; una tensione che trascina lo spettatore nel cuore di tenebra della legalità yankee (spazio di guerra dove l’unico avamposto luminoso, pur circondato da spari, i “fuochi d’artificio”, è quel piccolo lembo di terra sul quale i ragazzi giocano a pallone); infine la recitazione a fior di nervi di un cast (Emily Blunt, Benicio Del Toro, Josh Brolin) che sa quello che fa e lo fa dannatamente bene.
Insomma, tutto in “Sicario” sembra concorrere all’affresco criminale dal respiro grandioso e intimo, perfettamente a proprio agio negli schemi (più riflessivi che d’azione) del thriller poliziesco, abile al tempo stesso nel muoversi con meravigliosa libertà lungo binari che sono solo suoi.

Foto 1Confine tra Messico e Stati Uniti, terra di tutti e di nessuno. Corridoio di peregrinazioni disperate dove legge e cartelli della droga condividono lo stesso piano transizionale e spazio sacrificale. A popolarlo sono i migranti, vagabondi senza tetto né regole, disperati che non hanno alternative per mantenere la famiglia se non afferrare al volo l’autobus e tentare l’american dream.
Kate Macer è un’agente FBI esperta in rapimenti. Inseguendo la traiettoria di un proiettile dentro un muro durante una missione di routine, apre uno squarcio su un cimitero di cadaveri. Chi sono? Da dove vengono?
Cooptata dalla Cia, che non riesce più a controllare il caos del narcotraffico, si ritrova nella città di Juarez, in Messico. Un formicaio di delinquenti che usano la brutalità come arma di potere. A comandare la baracca è un Josh Brolin in infradito, mentre un inquietante Benicio Del Toro, sospetto di doppiogiochismo, le fa da consulente dispensando perle sottovoce. Le dinamiche sono indecifrabili, l’inganno è dietro l’angolo.
La ragazza scopre presto che ciò che non si può sconfiggere, bisogna imparare a gestirlo. Anche a costo di assorbirlo e rinunciare (per sempre?) a ogni idea di rettitudine. Abbandonata una certa (improbabile) ingenuità (“Non sono un soldato, non è questo che faccio”), Kate inizia un gioco complicato dove il compromesso è l’unica arma possibile.

Sicario (foto secondaria in basso al posto della pubblicità)Il ritmo al cardiopalma della prima mezz’ora, che culmina con la sparatoria in autostrada (una delle sequenze più belle del film), lascia spazio alla fumosità di un nucleo centrale che vive di momenti riusciti e meno. L’ultima parte è invece strepitosa: i nodi si sciolgono, il disegno di vendetta è manifesto. Anche per chi, divorato dalla luce di campi lunghi e lunghissimi, viene risucchiato in un tunnel dalle tenebre del deserto.
La mira di Benicio è implacabile, le armi fanno rumore come nei veri polizieschi, i suoni di Johann Johannson ti inchiodano all’angoscia. “Sicario” è specchio di pessimismo senza sconti e Villeneuve un cineasta coi fiocchi. Dovrebbero affidargli una stagione di “True detective”. A suo rischio e pericolo, invece, farà il sequel di “Blade runner”.

 

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