LE OPINIONI

IL COMMENTO La speranza e la disperazione

Ormai è sulla bocca di tutti la terza emergenza provocata dal Covid 19: dopo quella sanitaria e quella economica, è arrivata – come un treno – (per riprendere una definizione usata dal premier Conte) l’emergenza psicologica. Si stanno rompendo gli argini del fiume nervoso di ciascuno. Dipenderà dalla nostra capacità di controllo fare in modo che, l’acqua che straripa, affoghi completamente i campi dell’anima o renda più fertile il prato del nostro equilibrio mentale e sentimentale. Per individuare le strade da percorrere, in questo articolo ci serviremo di psichiatri e filosofi che ne sanno più di noi e che – per fortuna – non sono stati ancora abbacinati dalle luci dei riflettori dei media che hanno la capacità di trasformare illustri scienziati in pessimi comunicatori-politici. Cito, a supporto di quanto vado a sostenere, per primo, un grande psichiatra, novantenne, specialista in depressione e schizofrenia: Eugenio Borgna. Lo psichiatra vanta numerose pubblicazioni, ultima delle quali è “Speranza e disperazione”. La speranza è, per Foscolo nei Sepolcri, l’ultima Dea a fuggire. La disperazione è, per il filosofo Kierkegaard (padre dell’esistenzialismo) il gradino superiore e irrimediabile dell’angoscia, che è invece il grado intermedio da cui è possibile guarire. Noi esseri contemporanei, al tempo del Covid e di tutti gli altri “cigni neri” che incombono, siamo ancora al grado intermedio: in piena angoscia. Potremmo dire, con linguaggio odierno, che siamo in zona arancione. E tra le titubanze dei governanti del mondo, nell’applicazione di misure restrittive, sbaglia chi crede ci sia solo un problema di equilibrio tra salute ed economia.

C’è il terzo incomodo: l’equilibrio psicologico, dal quale possono diramarsi altri squilibri, come la “rivolta sociale”. Nessuno si faccia maestro, dunque. Siamo di fronte ad un’immane impresa epocale. Questo è il motivo per cui Borgna non si ferma alla psichiatria ma si allarga alla filosofia, alla letteratura, alla ricerca del senso dell’esistenza, alla comprensione di ciò che è vita e ciò che è morte. Per entrare nel vivo di queste riflessioni, apro una parentesi su quella che è l’attuale situazione sull’isola d’Ischia. Già il dato dei suicidi degli ultimi tempi ci dovrebbe far riflettere, come pure ci dovrebbe far riflettere che gli ultimi due casi appaiono, allo stato, inspiegabili. Ogni giorno nascono voci, più o meno fondate, di questo o quel nucleo familiare che è stato contagiato dal virus. Giungono notizie di amici che ne sono afflitti, alcuni dei quali in maniera grave, per ragioni anagrafiche o di malattie pregresse. Ne siamo angosciati, mentre dall’America arriva qualche squarcio positivo sul vaccino. La maggior parte dei soggetti reattivi si sofferma sulle responsabilità politiche, su ciò che si è fatto o non si è fatto e su ciò che si dovrebbe fare. Un appello accorato ai Sindaci, molto apprezzato dall’opinione pubblica locale, è partito, giorni fa, da Vito Iacono che invoca iniziative adeguate e unitarie per mettere l’isola in sicurezza e per rivendicare il diritto, di realtà insulari come Ischia, di non essere divise in compartimenti stagni, tra Comune e Comune e tra isola e isola. E’ una rivendicazione molto giusta. Tutto questo è doveroso ma non sufficiente. Per sconfiggere l’annichilimento degli stati d’animo e delle capacità di reagire, dobbiamo mettere in atto uno sforzo culturale senza precedenti. Ad esempio l’Ambito Sociale n. 13 (Procida-Ischia) organizzazione già esistente e di immediata operatività, crei un Pronto Soccorso Psicologico con un numero unico da poter chiamare. Tale struttura prevede già i seguenti settori di intervento: Infanzia e famiglia, Dipendenze, Diversamente abili, Giovani, Immigrazione, Povertà e Integrazione, Anziani. Ed esiste già un filo diretto con la possibilità di segnalare, con un modulo online, particolari esigenze. Si tratta di affinare lo strumento, riadattandolo alle emergenze assistenziali e psicologiche create dalla pandemia.

I settori che ho sopra menzionati, sono proprio quelli più esposti all’angoscia esistenziale, assieme alla preoccupazione di chi perde il lavoro o di chi il lavoro non trova. Da lì, con l’apporto delle forze dei singoli Comuni associati, deve essere creata una rete di assistenza morale oltre che materiale. Anche un atto semplice come il disbrigo di una pratica per conto di un anziano, può essere importante per non far sentire l’anziano solo e abbandonato. Lasciamo stare l’Arma dei Carabinieri, che ha altri importanti compiti a cui dedicarsi. Tutto questo lo possiamo fare autonomamente e a prescindere dalla istituzione dell’USCA (Unità Speciale di Continuità Assistenziale) su cui la Regione è in ritardo. Così come lo possiamo fare a prescindere dalla attuazione del Protocollo che fu firmato, circa tre mesi fa, tra Ordine degli Psicologi e il Miur, per l’inserimento di psicologi nelle scuole. Per non parlare della possibilità di affiancare, alla didattica a distanza, la telepsicologia. Ma fatto questo esempio di pratica applicazione di quello che si può fare, dobbiamo ritornare a discorsi più profondi sulla necessità di imprimere una “svolta culturale” di fronte alla malattia e all’eventualità della morte. Ritorno dunque allo psichiatra Borgna che, per rendere più chiara la terapia che egli ritiene utile in questo frangente, cita grandi autori del passato. Oltre a Kierkgaard, chiama in causa Pascal, Agostino, Alfonso de Liguori, Goethe, Giacomo Leopardi, Cesare Pavese. Quest’ultimo immortalò la sua intenzione suicida nella poesia “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, in cui traspare l’assenza della speranza e l’impossibilità di trovare un senso alla vita. Alfonso de Liguori, santo napoletano, diceva che “la vita è un’affacciata di finestra” E’ per questo che forse nella prima fase della pandemia ci si affacciava ai balconi (per cantare, suonare o trasmettere una parola da un balcone a un altro). Leopardi, nello Zibaldone, lega indissolubilmente vita e speranza e guai a perdere il filo del colloquio e della relazione con altri uomini. Ma, attenzione, Borgna dice che la speranza si può imparare. E la si può imparare a prescindere che si sia “credente” o “non credente”, perché il credente ha la speranza dell’al di là, il laico ha la fiducia nella vita di qua. Un altro grande vecchio della psichiatria, Vittorino Andreoli che, ci delizierà con 15 libri che usciranno settimanalmente col Corriere della Sera (il primo sulla “paura” è già in edicola) ci spiegherà l’ansia, la fragilità, la rabbia, la tristezza, la pietà ma soprattutto ci chiarirà che, come ci insegna Seneca, nel De Tranquillitate Animi, c’è differenza sostanziale tra “ felicità” e “ gioia”. La felicità riguarda esclusivamente l’io, la gioia riguarda il “noi”. E dunque ritorniamo alla necessità della relazione tra le persone. Lo scrittore Alessandro D’Avenia, in un recente articolo sul Corriere della Sera, dal titolo “Gli amortali” fa una distinzione tra la concezione che avevano i Greci della morte e quella che fu introdotta dai Cristiani. Per i Greci i morti finivano nelle “necropoli” (città dei morti). Per i Cristiani, i morti finiscono nel “cimitero” (giaciglio) ovvero “letto” dal quale nasce un nuovo seme verso la vita ultraterrena.

Comunque sia, per i Greci come per i Cristiani, sono indissolubilmente legate e si intrecciano la vita e la morte. Chi ama la vita non teme la morte. Paura è un termine che ha la stessa radice di “pavimento” (paveo). Dice D’Avenia: “la paura sta mettendo a repentaglio le fondamenta (il pavimento) del nostro vivere“. A chiusura, mi piace richiamare un affascinante ed illuminante racconto mitologico: il mito di Ade. Questi era uno dei tre figli del Dio Crono e gli spettò il regno sotterraneo dei morti. Ade era costretto a restare nel regno delle tenebre, dalle quali poteva uscire solo in rare occasioni. Ad accompagnare le anime agli inferi era Hermes e Ade gli assegnava i posti che a loro competeva. Ma Ade ed anche Persefone (la moglie) non erano solo i custodi e padroni degli inferi. Facevano anche del bene sulla Terra, facevano ritornare la bella stagione e facevano fruttificare le piante e possedevano e dispensavano metalli, da quelli di poco conto a quelli preziosi. Tant’è che il secondo nome di Ade era Pluto (ricchezza). Qual è allora il valore simbolico di questo mito? Che vita e morte, mondo degli inferi e vita terrena, sono un tutt’uno, il proseguimento l’uno dell’altro. Anche per il “non credente” rimane la “gioia” di aver fatto parte dell’umanità, di essersi relazionato con essa e di aver lasciato ad essa la testimonianza di una vita bella. Siamo capaci di trasmettere questa serenità d’animo? Nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master c’è – tra le tante poesie dedicate ai sepolti nel cimitero- una bella poesia dedicata a George Gray, di cui riporto alcuni versi: “Ora so che bisogna alzare le vele/ e farsi portare dai venti del destino/ dovunque spingano la nave/ Dare un senso alla vita può sfociare in follia/ ma una vita senza senso è la tortura…” Siamo capaci di dare un senso alla vita senza temere la morte? O il salto culturale è ancora tutto da compiere?

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