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Tra zoologia, teatro e politica, Ischia riscopre l’importanza del dialetto

di Isabella Puca

Ischia – “I dialetti sono eterni. Gesù parlava in dialetto. Dante scriveva in dialetto. Il Padreterno, in cielo, parla in dialetto”. Diceva così del dialetto il poeta Libero Bovio rassicurandoci sin dalla prima affermazione: “i dialetti sono eterni”. Sì perché, che mondo sarebbe senza dialetto, che mondo sarebbe senza poter affermare la nostra identità? Perché è di quest’ultima che si parla, e si è parlato, in occasione della giornata nazionale del dialetto celebrata a Ischia, nella Biblioteca Antoniana, lo scorso martedì pomeriggio. Un appuntamento importante, per l’isola e non solo, atto a sottolineare l’importanza del dialetto come veicolo di espressione per raccontare il mondo che ci circonda. A volere fortemente questa giornata, organizzata dall’unione nazionale delle Pro Loco, l’Assessore alla cultura per il comune d’Ischia Carmen Criscuolo. «Sono felice di essere qua come assessore alla cultura, il nostro intento – ha dichiarato l’assessora – è di sottolineare l’importanza del nostro dialetto inteso come strumento espressivo capace di rappresentare le nostre emozioni. Ci caratterizza da sempre e questa giornata vuole tutelare le nostre radici. Nell’era della globalizzazione è fondamentale non perdere di vista la nostra cultura e tutelare il nostro dialetto, così vicino al napoletano, ma così diverso tra i singoli comuni. Sono felice d’intraprender il 2017 con questa giornata. La volontà di raccontare la storia dell’isola d’Ischia è forte». Le parole chiave dell’evento sono state: identità, cultura, lingua, dialetto, lo stesso che ai nostri ragazzi viene chiesto, il più delle volte di non parlare, perché è “da ignoranti”, perché lo parlavano i nostri nonni quando studiare era un lusso. Eppure perdendo il dialetto si perde parte della nostra identità, delle nostre tradizioni, anche di quelle legate all’animo più antico dell’isola, quello contadino. Dopo il saluto della professoressa Marta Mattera, vice presidente della Pro Loco Isola Verde la parola è passata al professor Ottavio Soppelsa, docente di zoologia all’università Federico II e autore del “Dizionario zoologico napoletano”, nel quale ha veicolato un decennio di ricerche raccogliendo i circa 3600 lemmi con i quali il dialetto definisce le specie animali. «Nonostante si tratti di un dizionario zoologico il mio approccio non è stato da letterato. Ho iniziato le mie ricerche 13 anni fa e, leggendo delle pubblicazioni scientifiche mi accorsi che il termine napoletano mi dava la possibilità di entrare all’interno della comprensione della specie. Oronzo Gabriele diceva che i nomi agli animali li dava la gente e così è». L’attore Roberto Scotto Pagliara ha così letto le varie definizioni di “Purpo” suscitando il sorriso nei tanti che, nonostante la forte pioggia, non hanno voluto perdere quest’importante appuntamento. Dalla pesca, alla caccia passando per l’ agricoltura e a quelle storie che affascinano e che, passando per il tramite della lingua, offrono uno spaccato storico dell’Italia più comprensibile di quello offerto da un libro di storia. La curiosità è tanta e la platea sembra essere davvero interessata al gioco della lingua. «Sono un appassionato di napoletano – ha continuato il professore Soppelsa –  e d’ informatica, fattori che messi insieme mi hanno portato al dizionario. Era una missione e dovevo chiuderlo altrimenti tantissime cose altrimenti sarebbero cadute nell’oblio. Come ad esempio il detto “Zimbr e caprett una bullett” risultato di un editto imperiale o ancora “Teng a nev rind a sacc” che veniva urlato dai trasportatori di ghiaccio. I nostri progenitori hanno avuto una grande capacità descrittiva; ad esempio c’è un granchio il “Rancio magnosa” che stacca un pezzo di spugna, che mantiene con la chela sul capo, per poi  mollarla davanti al predatore. La magnosa non è altro che un cappellino». Difficile, ma davvero esemplificativa, è l’operazione linguistica del maiale, “’o puorc”, «i monaci di Sant’ Antuono Abate curavano le persone afflitte di podagra con il grasso di maiale. I monaci, una volta dimessi i malati, avvolgevano del lardo nella figurina del Santo, da qui il detto “Cu lard n’ da figur” per dire a qualcuno che è rimasto con niente. Oppure, i porcelli di Sant’Antuono venivano allevati insieme e liberamente pascolavano tra le case. La gente li teneva come segno di buono augurio e li nutriva.  Un giorno, durante la festa di San Gennaro, un maiale spinse in aria un cardinale con le ampolle del sangue del Santo tra le mani e un editto, che non fu mai recepito, vietò i maiali tra le case». Dal maiale non si poteva che arrivare al coniglio da fosso il cui nome deriva dal posto in cui venivano allevati, la fossa, il cunicolo e quindi “cuniculus”. «Nel nostro passato – ha detto ancora il professore – abbiamo avuto idea del termine armonia inteso come sostenibilità. Conoscevamo quanto mangiare la carne rappresentasse un sacrifico un “fare sacrum”. Ricordo che mia nonna nell’ ammazzare le galline paesane diceva “mort a te, salut a noi”. Mi sembrava una frase cattiva poi ho capito il vero significato “affinché la tua morte serva alla nostra salute”. Oggi compriamo al supermercato le vaschette con 6 cosce all’interno; significa che hanno ucciso 3 galline e questo elimina la coscienza del sacrifico. Bisogna consumare con coscienza e farlo rispettando il genus loci e la stagione». Il dizionario firmato da Soppelsa ed edito da D’Auria si annuncia come un’arca dei frammenti, un modo per custodire quell’identità dialettale legata alla zoologia affinché non vada persa nel disuso, «è un primo tentativo, uno scrigno, un punto da cui partire per chi vuole completate l’opera». Dalla zoologia al teatro con l’intervento di Salvatore Ronga che ha presentato “il dialetto da Viviani e Troisi”. Tra lingua molle e lingua tosta,  “a tazzulell e cafè” e ‘o ccafé”, napoletanità versus napoletaneria spiegata attraverso le opere di  La Capria, Scarpetta e Viviani che porta a teatro una lingua reinventata e ancora i De Filippo che in dialetto traducono, addirittura, Pirandello e Shakespeare. «Eduardo – ha raccontato Ronga – mette in scena un italiano che poggia su una costruzione sintattica napoletana lo fa perché i suoi personaggi sono piccolo borghesi e poi per farsi capire. Nel monologo di Filomena Marturano rivolto all’avvocato, Filomena parla la lingua del popolo eppure tende a tradurre qualche parola pur essendo l’avvocato un napoletano». Parlando del dialetto ciascuno si sente a casa sua e sono in tanti a voler intervenire come l’agronomo Franco Mattera che ha recuperato finestre sull’anima terragna dell’ isola scrivendo un saggio in cui si parla della vendemmia antica e tradizionale dell’isola con attrezzi descritti in maniera dialettale. E se si parla di dialetto non si può non approfondire quello foriano, nato, cresciuto e pasciuto all’ombra del Torrione.  A parlarne, Emanuele Verde e Barbara Pierini che, insieme, hanno rispolverato le poesie di Maltese, quelle politiche e quelle d’amore, riscoprendo una Forio in continua campagna elettorale con temi che, ancora oggi, sembrano essere attuali. In sala anche Gaetano Maschio. «Ho appreso il dialetto da nonna Peppenella, ai bambini il dialetto viene visto come qualcosa di “sporco” di “peccaminoso”. E invece in Argentina, durante una tournee mi riempì di gioia sentire parlare “’u furien”». Che sia ischitano, foriano, lacchese o napoletano, sentire parlare il dialetto è come ritrovarsi a casa, e mettersi finalmente comodi anche se si è lontani diversi km dalla propria terra.

 

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