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Tre intere vite nelle baracche del 1883

Quando i quotidiani nazionali si sono scatenati contro l’isola d’Ischia, accusata di abusivismo edilizio, seguiti dalla malevola vignetta di Famiglia Cristiana, mi è sembrato del tutto naturale ritornare a far visita alle baracche del 1883, dislocate nei rioni umbertini di Casamicciola, Lacco Ameno, Forio e Panza, se non altro per documentare l’esistenza – a distanza di circa 140 anni – di centinaia di codesti alloggi di fortuna, realizzati in legno e zinco, per dare “ricovero temporaneo” a cinquemila derelitti, colpiti da un terremoto disastroso di cui non si è più perduta la memoria.

Questi agglomerati urbani, già fatiscenti e sub-umani, io li ricordo bene, perché agli inizi degli anni Sessanta, nei piccoli spazi esistenti al centro dei rioni, ci giocavamo a pallone, si fraternizzava con quelli della Marina e di Perrone, ci si scontrava anche in modo cruento per stabilire una supremazia territoriale, che in quei tristissimi anni di fame e di miseria aveva una sua ragion d’essere, illogica e irrazionale quanto si vuole, ma praticata con grande convinzione.

In uno di questi splendidi abituri (che ancora oggi è possibile “visitare”) vi era entrato il papà di un futuro magistrato con la sua famiglia, perché non aveva nemmeno gli occhi per piangere, né una mesata per pagarsi l’affitto di una casetta decente, né una zolla di terra per costruirsi un’abitazione civile e a misura d’uomo. Altri disgraziati accettarono il grazioso dono del sovrano Umberto I, giusto in tempo perché di lì a poco il re “munifico” finì i suoi giorni sotto i colpi dell’anarchico Bresci. Le baracche accolsero la bellezza di duemila persone: erano contadini, pescatori, artigiani, piccoli commercianti, venditori ambulanti e vagabondi senza arte né parte: una umanità già selezionata da madre natura e imprigionata negli slum, come li chiamerà nel 1969 il giornalista napoletano Luciano Russo, molto amico di Forio e della sua gente.

Il ministro dei Lavori Pubblici Genala era stato l’artefice di cotanto scempio, dissipando dieci milioni di lire dell’epoca raccolti grazie all’obolo di città italiane e paesi stranieri commossi per sì immagine tragedia. Nel tempo il ministro del re varò in men che non si dica un piano regolare esclusivamente per Casamicciola, localizzando nuove costruzioni per i “Patrizi” lungo la fascia costiera della cittadina. Una superba superficie con vista mare, tutta pianeggiante, offerta a prezzo di favore per i danarosi locali e per quei forestieri che avessero voluto onorare della loro presenza… turistica la derelitta Casamicciola, fiaccata nello spirito e nel portafoglio dal terremoto.

Agli inizi del secolo il “capitale” l’ebbe vinta sul popolo. Villa Cilento, villa Odina, villa Lombardi, palazzo Malese, villa Eden, villa Notte, palazzo Morgera, villa Barbaja, villa dei Salesiani, palazzo Canetti, con licenza o senza licenza furono edificati e abitati soprattutto nel periodo estivo. Vissero così, di pari passo, le due comunità: i Patrizi nelle loro ville e palazzi, i plebei nelle stamberghe marce di Perrone, della Sentinella, del Rione Sanseverino e del Rione Umberto I: vite parallele, come insegna Plutarco, e come tirò la squallida esistenza la gente comune, quella che oggi con egual disprezzo viene indicata come l’origine di tutti male, ovverossia “l’abusivismo edilizio”! Passarono per i rioni nauseabondi due generazioni: padri e figli, abbarbicati alle assi di legno di abete e ai tetti arrugginiti di lamiere zincate, piegati nella dignità e nell’amor proprio, condannati alla promiscuità animalesca di un villaggio africano o di una bidonville brasiliana: senza speranza, ma con un destino irrimediabilmente tracciato.

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Nella notte del sisma del 21 agosto 2017, molte baracche assolvevano ancora “egregiamente” al compito di ospitare la terza generazione, ossia i nipoti dei nonni terremotati, mentre la stampa nazionale straparlava di abusivismo edilizio dell’isola d’Ischia come causa delle… macerie! Al controllo delle case distrutte e di quelle danneggiate è risultato che le abitazioni decrepite dell’ottocento sono andate in rovina, mentre quelle moderne e abusive hanno retto egregiamente al poderoso scossone del terremoto. Anche le baracche “rifatte” abusivamente a spese dei privati, se ne sono impipate della scossa e hanno continuato, come se niente fosse, a vivere la loro esistenza piatta e grigia, con la solenne promessa di resistere alla prossima spallata che avverrà – meno male – tra un paio di secoli, così come hanno sostenuto quegli intronati dell’Osservatorio Vesuviano.

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Qual è la morale della favola? Io penso che devono cercarla i sei sindaci dell’isola d’Ischia, stipendiati con i soldi pubblici, che continuano a fare gli gnorri, infischiandosene dei piani urbanistici da approntare e delle demolizioni da effettuare per gli speculatori di professione e gli ecomostri realizzati nella nostra isola; devono cercarla i giornalisti che dell’abusivismo edilizio non conoscono un fico secco e sono sempre pronti a scopiazzarsi a vicenda, sparandole come alla festa del paese, a dieci “aperture”; devono cercarla i magistrati, che dall’alto della torre B del Centro Direzionali vedono le case d’Ischia con il binocolo all’incontrario; devono cercarla infine i “naturisti” che pretendono di far vivere la gente comune nella jungla e i loro pari nel palazzo a nove piani di Monterone Santa Lucia. Il piatto è servito: accomodatevi pure e che buon pro vi faccia.

Gino Barbieri

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