CULTURA & SOCIETA'

La vendemmia era un lungo rito familiare dai vigneti

Lignei “tenielli” portati nella pigiatrice del “palemiento” in cantina

Memoria indimenticabile dell’infanzia era la vendemmia nei floridi vigneti dei nonni miei materni. Era sempre la infaticabile ed eroica nonna Maria Giovanna Di Iorio (e il nonno Andrea Di Scala, mutilato di guerra a vita per le ferite riportate da eroico combattente in prima linea sul Sei Busi, a far da regista) a svolgere i preparativi necessari con la “scaulatura” di tutto l’occorrente in legno, come “e’ tenielli”, “u’ cato”(secchio lìgneo), “u’ trocchio”(torchio), pigiatrice, l’interno con filare di grossi “vuttoni”(botti) accedendovi attraverso il mobile “tumpagno”, “e’ mèfere”(tappi), damigiane ed il lungo condotto della storica ed esistente cantina avìta (nella foto dello scrivente). Con coltelli e tipici “marrazzielli”, un panno sulla spalla (o il classico cèrcine -“maccatùro” attorcigliato a ciambella sulla testa, per le donne) e coi “tenielli” colmi verso la fresca cantina in Via Piano n. 16 del Comune collinare di Barano d’Ischia: dai vigneti dei monti (Vigna, Marecoppa, Monte Barano, Via del Monte, “U’ preute”, Pizzone (poi donatomi dalla nonna), l’uva era naturalmente più bionda, di migliore qualità zuccherina, a differenza delle Piànole, Fratte, Ricchio o attorno casa) si scendeva per vecchi sentieri a ritmo di scazonte. Il profumo dell’uva pigiata nella vasca del “palemiento” (palmento), il mosto, si spandeva nei dintorni e nella cantina visibilmente scavata in profondità dagli avi contadini a colpi di piccone, e da cui su laterale profondo cunicolo si estraeva anche la pozzolana. Poi il tic-toc cadenzato del “trocchio”per pigiare le “strèppole” d’uva passate dalla pigiatrice e qui mi divertivo scalzo a “carcàre” l’uva prima della torchiatura e l’occasione gustosa per assaggiare il mosto che colava nei “tenielli” (tini) e portato col cèrcine in testa sull’apertura del “vuttone” attraverso l’imbuto in legno (gli “strepponi” e “arilla” o semi dell’uva divenivano infine concime).

Quindi l’attesa della schiaritura, quando si praticava un “pertusillo” “ca’ vriàla”(verrina), piccolo tràpano a mano, entro cui si apponeva un tappo a punta da un ramo dopo aver assaggiato l’evoluzione del vino attraverso il colo dal “pìrolo”, una cannuccia ritagliata, per portarlo a tavola. Accompagnavo a piedi il nonno Andrea a Barano d’Ischia centro, in Via Vitt. Emanuele, vìcolo di San Sebastiano, per farne misurare la gradazione, che abbondante veniva pure venduto col trasporto dal Piano (non c’era l’attuale strada carrabile, ma il pendìo cosiddetto “Casaiuolo”) della celebre carretta tirata dai muli di Giovan Giuseppe Lucido Balestrieri “e’ Cardinali”-per le loro virtù morali e laboriosità- (l’omònimo fratello di sua moglie Maria -Gioacchino- aveva sposato Gerarda Di Scala, sorella di mia madre, quindi mia zia): mi colpiva la sua forza nel caricare i barili ! R Ancora il profumo settimanale quando, col “crìscito” custodito, la mia nonna faceva il pane impastando in una “màttera” contenitore rettangolare -(greco “matto”=impastare)- di legno: che sapori dal forno del focale annerito dal fumo, sede abituale, sapiente del fuoco sempre vivo -anche sotto la cenere- del caro nonno Andrea (con “tiane” e “caccavelle”, pentole di creta e metallo, dal greco “kakkàbe”), cui facevo la barba e mi regalava le sue memorie, correvo a comprargli le “nazionali” da Stanziola (in alternativa alla pipa) o i maccheroni ‘ziti Giovannone’ (tutto era sfuso e posto in “cartocci”) con altri alimentari presso il negozio di “Giorgio e’ Gennaro” con suo figlio Raffaele. Il mobilio dei due piani di casa, con diverse stanze, era semplice: stipone, uno stipo a muro, un tavolo con sedie, cristalliera, comò con tradizionali ‘campane’ di vetro e foto, Immagini sacre, e la lampada pubblica esterna alla finestra illuminava l’interno. Con le regalìe per i servizi compravo il mio preferito fumetto ecologista tarzànide “Akim”. Per i bisogni notturni c’era “u’ pisciaturo”, “o’ rinale”, cioè orinale (greco “skiùfos=vaso, schifo) e, comunque, all’aperto tra i filari sotto una “parracina” nell’angolo della terra una sorta di “pagliaro” con una pertica sostenuta ai lati: successivamente si realizzò all’esterno della casa un bagno esistente. Si praticava nel “lavaturo”, sotto l’arcata, la cosiddetta “culata” di indumenti con un grosso pezzo di sapone e cenere. Tipica l’esposizione estiva sull’alto “àsteco”(greco “astikòs”=urbano, civile), tetto a botti (che si raggiungeva con una scala mozzafiato) delle “spaselle”(vassoi con intrecci di ginestre) per seccare l’abbondanza dei fichi e di uva per farla passita. A sera, prima del riposo, si pregava sempre. (continua)

*Pasquale Baldino – Responsabile diocesano Cenacoli Mariani; docente Liceo; poeta; emerito Anc-Ass Naz Carabinieri (e-mail: prof.pasqualebaldino@libero.it)

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