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Il viaggio di un cronista nel paese delle mafie

Di Francesco Di Meglio

LACCO AMENO – Le problematiche sull’emergenza criminalità sono da sempre di un’attualità incandescente così come il ruolo ideologico/morale di chi combatte in prima fila il fenomeno.
Essendo tutti noi destinatari del lavoro dei media sull’argomento, e spesso arrabbiati e poco lucidi nel giudicare questa emergenza, risulta quindi fondamentale il ruolo di un giornalismo che sia informato e consapevole.
“Senso di Marcia” è un film/documentario (genere ormai consacrato anche nei grandi festival) prodotto da Danilo Iervolino dell’Università Telematica Pegaso e diretto dal brillante Duccio Giordano, che  tende a superare limiti e preconcetti sul giornalismo d’inchiesta, sviluppando temi duri e scottanti come la mafia da un punto diverso inedito ed intrigante: far emergere una parte di sè stessi, raccontando magistrati e gente comune da una prospettiva lucida e aderente alla realtà, evitando le derive della solitudine o dell’onnipotenza.
Persone normali più che Eroi, ma “vitali” per il destino della Comunità.

Il viaggio di un cronista nel paese delle mafie, un’esperienza che nasce da un’inquietudine personale: l’esigenza di superare luoghi comuni e ambizioni professionali spicciole, per capire cosa c’è di vero nella propria attività di giornalista impegnato, ma anche nella lotta al crimine organizzato ingaggiata dallo Stato.

 

È così che il bravo giornalista di un quotidiano specializzato in notizie di nera si trasforma in un narratore, prendendo per mano lo spettatore e accompagnandolo in un viaggio alla ricerca di se stesso, ma anche alla ricerca di persone vere, di testimoni autentici della lotta alla mafia: un viaggio che si trasforma in costruzione della direzione che questo Paese dovrebbe prendere contro illegalità e malaffare.

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E allora ecco Napoli, Gela, Palmi, Reggio Calabria, Milano e ancora Napoli. Luoghi che fanno da sfondo all’incontro del protagonista-io narrante (un giornalista sulla quarantina affermato ma inappagato) con magistrati più o meno noti, tutti impegnati nella frontiera della lotta alla mafia: Lucia Lotti, Alessandra Dolci, Federico Cafiero de Raho, Catello Maresca, Nicola Gratteri, ma anche testimoni di giustizia e persone comuni, semplici cittadini (un pescatore, un contadino, un commerciante), per ritrovare il significato più autentico della propria professione, che è poi l’unico sbocco possibile nella ormai secolare lotta che lo Stato ha ingaggiato con clan e capimafia, boss e gregari.

 

Un viaggio personale che è anche una storia collettiva. Tutto nasce da uno sguardo, quello di un pm dopo una maxiretata, che tradisce una buona dose di disincanto e ironia nei confronti del circuito mediatico-investigativo che quotidianamente impegna le migliori risorse del Paese. È così che il giornalista decide di superare etichette e protocolli e di attraversare parte del territorio nazionale, per cercare di mettere a fuoco il fenomeno mafia, nel tentativo di comprendere anche la strada migliore per raccontare all’opinione pubblica il sacrificio e la dedizione di chi è in prima linea contro il crimine. Storia di sguardi e di paesaggi, che assume spessore e concretezza via via che i personaggi si raccontano, si aprono alle domande del giornalista.

 

E così che il tramonto sul porto abbandonato a Gela, una fabbrica dismessa, le croci bianche di Palmi, il cantiere blindato di un testimone di giustizia, gli uffici bunker di pm e procuratori, un giardino privato in un condominio di Milano, le torri del Centro direzionale a Napoli o il suo splendido lungomare diventano dei luoghi simbolo di una narrazione dalla quale emerge una sola verità possibile: a tenere in piedi la lotta alla mafia non esistono eroi o personaggi predestinati, ma uomini e donne, mogli e padri di famiglia che hanno deciso di rinunciare ad un approccio impiegatizio e hanno deciso di sacrificare il bene più prezioso – affetti e tempo libero – per dare continuità al proprio lavoro, per dare significato al proprio senso di marcia.

 

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