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“Una nuova speranza per evitare nuove demolizioni”

Di Francesco Ferrandino

ISCHIA. La sentenza n.56 della Corte Costituzionale depositata lo scorso 23 marzo è stata da più parti definita di portata storica oltre che rivoluzionaria. La dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 181 comma 1 bis del Decreto Legislativo 42/2004 è stata motivata con l’irragionevolezza del diverso trattamento sanzionatorio riservato a chi esegue opere senza autorizzazione su beni paesaggistici assoggettati a vincolo in base a provvedimento ministeriale  rispetto a quelli assoggettati a vincolo in base alla legge, elencati all’articolo 142 del d.lgs. n. 42/04. Dopo aver già analizzato le motivazioni della Consulta, abbiamo chiesto un parere all’avv. Michelangelo Morgera, in particolare per le conseguenze che essa comporterà sulle condanne definitive comminate in passato.

Per quanto riguarda le sentenze già passate in giudicato, l’ex Procuratore Aldo De Chiara pensa che la decisione della Corte Costituzionale non riguardi le demolizioni:

«Non sono affatto d’accordo. Anzi, sono convintissimo che questa sentenza della Corte Costituzionale avrà anche effetto retroattivo: ex tunc e non solo ex nunc, per dirla coi brocardi latini, e che in moltissimi casi bloccherà anche gli ordini di demolizione».

A livello locale, è prevedibile che saranno diversi i procedimenti interessati dalle conseguenze di tale sentenza..

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«Sulla nostra isola, dove i reati urbanistici e paesaggistici costituiscono circa la metà del totale, credo che la sentenza della Corte Costituzionale abbia risolto la questione degli abbattimenti in almeno  un quarto o un quinto di essi. Vorrei comunque precisare alcune cose in merito al dibattito originato dal deposito dell’importante sentenza».

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Prego.

«Con la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 181, commi 1 bis del D.lgs 42/2004, non è del tutto esatto affermare che “non si va più in carcere”. Come sappiamo, i reati si dividono in delitti e contravvenzioni. Nel secondo caso è prevista l’ammenda (o l’arresto), mentre per i delitti è prevista la multa, la reclusione o l’ergastolo. In passato, prima dell’entrata in vigore della legge 308 del 2004 (cd. “condono Berlusconi”)  e del D.lgs 42/2004, sia il reato urbanistico che  il reato paesaggistico costituivano contravvenzioni, punite entrambe con la stessa pena dell’arresto fino a due anni e sanzioni come l’ammenda fino a circa 50mila euro. Con la legge 308 del 2004 il Governo ha trasformato il reato paesaggistico in delitto, tanto è vero che venne prevista la pena della reclusione da uno a quattro anni. Quindi il reato urbanistico e quello paesaggistico venivano posti su due piani differenti, e con un differente regime sanzionatorio. Forse noi non ce ne rendiamo conto appieno: quando sulla nostra isola si costruisce un manufatto abusivo, vengono commessi due reati in concorso: quello urbanistico, a tutela dell’assetto del territorio, e quello paesaggistico dove il bene giuridico tutelato è la bellezza del territorio. Un altro aspetto importante della “svolta” del 2004, e che va messo tuttora in luce, riguarda la prescrizione dei reati, che è differente per le contravvenzioni e i delitti. Nel primo caso il termine ordinario è di quattro anni, quello massimo cinque anni, mentre per i delitti puniti con la pena fino a quattro anni di reclusione (come il reato paesaggistico), il termine ordinario di prescrizione è di tre anni, quello massimo, se il soggetto è incensurato, è di sette anni e mezzo. La Corte Costituzionale ha stabilito che è illegittimo l’art. 181 comma 1-bis perché è “irragionevole nella parte in cui per le stesse tipologie di reati prevede pene diverse”. È una questione che sembra solo tecnica, ma fino a un certo punto. Secondo l’art. 734 del codice penale, chi deturpa, distrugge o altera le bellezze naturali viene punito con le pene previste per le contravvenzioni, mentre l’articolo in questione del Codice dei Beni culturali e paesaggistici prevedeva pene più pesanti. Quest’ultimo è stato dichiarato incostituzionale (laddove fa richiamo all’art. 142 dello stesso Codice emanato col D.lgs. n.42 del 2004) con la conseguenza che il sistema sanzionatorio vigente è nuovamente quello precedente al 2004, quindi chi commette tali reati d’ora in poi dovrà essere punito con la pena dell’arresto fino a due anni. Quindi non è vero che non è più previsto il carcere».

In effetti, spesso i non addetti ai lavori ignorano certe differenze.

«Dobbiamo fare attenzione alle parole: la “contravvenzione” non è l’illecito amministrativo sanzionato con la pena pecuniaria. La contravvenzione, ripeto, è una tipologia di “reato”, pur se distinto dal delitto. Quindi non si tratta di sanzioni che vengono totalmente meno, perché è comunque prevista una sanzione, carcere compreso. È un po’ più bassa nella previsione del massimo, oppure invece di chiamarsi “reclusione” viene definito “arresto”, ma si tratta comunque di una pena dello stesso genere».

In che modo, concretamente, questa pronuncia può influire sulle condanne passate in giudicato?

«Questa sentenza della Corte Costituzionale avrà sicuramente un effetto estensivo su tutte le sentenze già passate in giudicato, perché essa va a incidere anche sulla prescrizione,  stabilita in base alla tipologia di sanzione e al suo massimale: adesso che non è più vigente l’art. 181 comma 1 bis del Codice paesaggistico che prevedeva la reclusione da uno a quattro anni, i reati paesaggistici non si prescriveranno più da sei ai sette anni e mezzo, bensì si prescriveranno nel termine più breve previsto per le contravvenzioni, ovvero in quattro anni per il termine ordinario, cinque come termine massimo. Ciò vale per tutti i reati per i quali sono in corso i processi e per i reati che verranno commessi dopo la sentenza della Consulta n.56 depositata il 23 marzo scorso. A mio avviso, e ho già affrontato la questione in un caso simile, quando la Corte Costituzionale dichiarò incostituzionale la legge che aveva equiparato le droghe leggere a quelle pesanti, anche la sentenza n.56/2016 andrà a incidere sulle sentenze passate in giudicato, e siccome una norma dichiarata incostituzionale deve essere espunta dall’ordinamento, essa non solo non potrà dispiegare effetti per il futuro, ma anche per il passato. La norma non è stata “abrogata”. L’abrogazione implica la cessazione della vigenza per il futuro, mentre ciò che è avvenuto prima dell’abrogazione continua a essere sottoposto agli effetti di tale norma. Nel caso di una sentenza d’incostituzionalità, invece, la norma viene considerata come estranea al sistema di valori fissati nella Costituzione, e quindi essa non poteva far parte del nostro ordinamento nemmeno in precedenza. Di conseguenza, anche le sentenze passate in giudicato devono essere riviste, laddove la persona coinvolta ne faccia richiesta. Nel caso che stiamo trattando, il trattamento sanzionatorio deve essere adeguato a quella che era la norma costituzionalmente legittima. Laddove fosse maturato il termine di prescrizione, all’epoca dell’emissione della sentenza, la condanna dovrà necessariamente essere revocata».

In particolare, per i reati legati agli abusi edilizi, cosa avverrà?

«Nel caso degli abusi edilizi, per il reato paesaggistico, oltre alla sanzione da uno a quattro anni di reclusione era previsto anche il ripristino dello stato dei luoghi, la classica sanzione accessoria amministrativa che sull’isola ormai tutti ben conosciamo. D’ora in poi, con la dichiarazione di incostituzionalità della norma, il reato paesaggistico non si prescriverà più in sei anni o sette e mezzo (a seconda dei termini), e si potrà intervenire anche sulle sentenze già passate in giudicato, con un apposito strumento giuridico, chiamato “incidente d’esecuzione”, che permetterà al condannato di fare ricorso al giudice dell’esecuzione che ha emesso la sentenza di condanna per ottenere un adeguamento del trattamento sanzionatorio. Se poi all’epoca in cui fu emessa la sentenza di 2° grado era già maturato il termine di prescrizione per la contravvenzione (cinque anni), il giudice non potrà fare altro che dichiarare prescritto il reato e revocare totalmente la condanna, compresa la sanzione accessoria del ripristino dello stato dei luoghi. È spesso accaduto che un soggetto venisse imputato per reati contro l’urbanistica e contro il paesaggio, e che quindi i due tipi di reato prevedessero pene e termini di prescrizione differenti. Per il reato urbanistico, erano previsti fino a due anni d’arresto e si prescriveva in cinque anni mentre quello paesaggistico era punito con una condanna fino a quattro anni di reclusione con un termine massimo di prescrizione di sette anni e mezzo. Quando veniva emessa la sentenza, ben poteva accadere che il reato urbanistico si era ormai prescritto, mentre non lo era quello paesaggistico, quindi il soggetto veniva condannato solo per quest’ultimo reato: oltre alla pena principale (un numero variabile di mesi di reclusione), si vedeva comminare anche la sanzione accessoria del ripristino dello stato dei luoghi. Quando poi arrivava la R.e.s.a., ovvero la messa in esecuzione dell’ordine di ripristino, il soggetto doveva ottemperare. Adesso, con la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 181 co 1-bis del D.lgs. 42/2004, il condannato che ne ha interesse può fare ricorso, mediante incidente d’esecuzione, presso il giudice dell’esecuzione che ha emanato la condanna per vederla riadeguata, alla luce  della norma che si sarebbe dovuta applicare all’epoca senza più considerare quella ormai espunta dall’ordinamento, quindi con la sanzione prevista in caso di contravvenzione , cioè arresto fino a due anni e l’ammenda fino a 51mila euro circa. Inoltre, se all’epoca della condanna erano decorsi i cinque anni dalla commissione del fatto, non sarà più possibile applicare la sanzione, perché senza la norma incostituzionale, già all’epoca si sarebbe dovuta dichiarare  la prescrizione, e il giudice dovrà necessariamente dichiararla ora».

Una sentenza che realmente scrive la storia, originata da un procedimento svoltosi dinanzi al Tribunale di Verona..

«In effetti è davvero singolare il fatto che a tale importantissima decisione si sia arrivati a partire da un giudizio di legittimità promosso da quel Tribunale, in zone dove il problema dell’abusivismo è certamente meno sentito rispetto alla nostra isola e in generale al Meridione. Se pensiamo alla vastissima casistica edilizia “ischitana”, vien da chiedersi perché una questione di legittimità costituzionale su questo punto non sia stata sollevata da nessuno degli avvocati isolani. In realtà, va anche detto che i giudici  chiamati negli ultimi anni a decidere sulle controversie edilizie di Ischia, hanno sempre respinto le questioni sollevate dagli avvocati, pur se su temi diversi da quello su cui si è pronunciata la Corte, scoraggiando di fatto tali iniziative. Non è nemmeno detto che in passato non sia stata sollevata da qualche operatore del diritto, ma di sicuro prima del caso “veronese” nessun giudice ha ritenuto fondata la questione al punto di promuovere il giudizio dinanzi alla Consulta».

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