CULTURA & SOCIETA'

“Vesuvio e pane”, ripubblicato il romanzo di Carlo Bernari

DI ENZO SALERNO

“ – E quest’è un romanzo, bello e buono! – Una tragedia, dovreste dire, – gli rispose la Kerton. – O forse un’Opera dei Pupi! – intervenne il Viandante”. Tre rapidissime battute nelle pagine finali di Vesuvio e pane – libro di Carlo Bernari, adesso di nuovo in libreria grazie al meritorio progetto di ripubblicazione dei testi narrativi dello scrittore napoletano (dopo la raccolta di racconti Gialli fulminanti) nella collana “Passi d’autore” del libraio-editore Pasquale Langella – che, da sole, già basterebbero a dare il senso e la misura (lunga trecentosessantanove pagine, senza contare l’introduzione a firma del curatore Carlo Bernard e le note in chiusura) di un’opera indiscutibilmente importante; vincitrice, ad un anno dall’uscita, del Premio Salento (nel 1953) e poi passata in secondo piano rispetto ad altri volumi bernariani (si pensi, soprattutto, ai precedenti Tre operai e Speranzella, con il quale aveva ottenuto il prestigioso Premio Viareggio nel 1950). Un romanzo “bello e buono” sicuramente per il composito impianto della trama: un Viandante – protagonista principale della storia, dal napoletanissimo nome di Espedito Esposito – torna da Genova a Napoli dopo la guerra, convinto di poter trovare un lavoro e una sistemazione definitiva nella sua terra d’origine. La città che gli si presenta – non molto diversa, per ambienti e umori, da quella raccontata da Curzio Malaparte ne La Pelle oppure da Nofi (che Napoli non è) di Domenico Rea in Spaccanapoli – è però allo sbando, un posto dove tutti si vendono “per due soldi”. Tale è lo spettacolo che gli si presenta all’ombra della “tragica mole” del Vesuvio, “bellissimo quanto volete, ma che ce ne facciamo. Che mangiamo forse Vesuvio e Pane?”. Così il viandante Esposito attraversando in lungo e in largo Napoli, dalla periferia al ventre, diventa spettatore della tragedia quotidiana di chi si arrabatta per sopravvivere – tra espedienti, lavori di fortuna, prestito, usura e prostituzione – e di chi cerca di fare l’“affare” (il recupero e la compravendita di “residuati bellici”) che gli cambierà la vita, pur rischiando indebitandosi fino al collo. “Bisogna correre sotto il debito per uscire dal debito. Il Debito non sta ad aspettarti all’angolo, bisogna cercarlo e devi sapere anche dove metterle le mani se non vuoi scottarti”. Ma a Napoli, si sa, anche la più tragica tragedia si risolve cantandoci o ballandoci sopra: e questo lo sa bene il personaggio più famoso dell’Opera dei Pupi partenopei: Pulcinella. “Comincia così l’odissea di Pulcinella che, non meno stregato di Ulisse, naviga in un mare di debiti finché non gli sembra di essere approdato all’isola felice. Ma non tarda ad accorgersi che anche lì la felicità è solo apparente, giacché sotto le spoglie del benefattore si cela uno che, al pari di lui, Pulcinella. Cerca un debito per afferrarlo per il collo; perciò: Debito sopra Debito che è un piacere da farci sopra una cantata e un balletto”.

Su questa traccia-palcoscenico, Bernari fa muovere molti altri personaggi (comparendo ad un certo punto della storia pure lui e ricordando “lo scrittore tanto bravo” Cesare Pavese, alla cui memoria il libro era stato dedicato), tra i quali spiccano soprattutto due figure femminili, tutt’e due “straniere”: Nanda – protagonista di una storia (una sorta di racconto nel romanzo) tragica di abbandono coniugale, malattia e morte – e la signorina Kerton, insegnante di tedesco delle figlie del filosofo Benedetto Croce ma nota soprattutto in città per la sua zoofilia, necessaria “in un paese dove la gente è così povera che non può sfamare neppure se stessa”. Non si concluderà a Napoli il viaggio del Viandante Esposito ma terminerà – come il romanzo – andando via dalla città dove l’uomo s’era illuso di poter tornare per restarci per sempre. E tuttavia – a bordo di un camion chiamato “Carmilina” da via Duomo alla salita di Capodimonte, in direzione Roma – “i suoi occhi non seppero staccarsi dal minuscolo Vesuvio dipinto sul velario del teatrino ambulante, che divenne sempre più piccolo finché fu niente”.

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