LE OPINIONI

IL COMMENTO L’importanza di dire la verità

DI LUIGI DELLA MONICA

Nelle sacre scritture dell’Antico Testamento circa 5 mila anni or sono viene ricordato agli uomini di non dire falsa testimonianza. Oggi sembra che l’avvento dei social consenta un uso generalizzato della menzogna, soltanto perché qualcuno è stato in grado di scrivere sulla bacheca virtuale una qualche frase, che via, via per il suo permanere sembra surrogarsi definitivamente alla realtà storica. Si ragiona per frasi fatte, slogan preconfezionati ad arte da altri abili scienziati della comunicazione, allo scopo di manipolare le menti e le opinioni che purtroppo vengono plasmate, a causa della pigrizia intellettuale indotta da smartphone e tablet, che con un semplice tocco sul browser danno risposte ad arcani dubbi amletici della vita. In altri termini, il 21esimo secolo ha narcotizzato la voglia della conoscenza, la fame della crescita mentale, che animava i filosofi del 19esimo secolo, ansiosi di emancipare l’umanità dal monopolio culturale della Chiesa Cattolica; i giuristi del 20esimo secolo, quantomeno quelli coscienziosi, che volevano adeguare l’ordinamento al progresso democratico della umanità. Oggi si delega tutto ad internet, ma le barbarie degli ultimi due anni con le guerre nella loro accezione classica ha ribadito la funzione essenziale per la crescita sana delle menti e delle coscienze del buon giornalismo. La “fake news” ha dimostrato che è in grado di fare danni come e peggio delle bombe mortifere e devastatrici.

Come sempre l’eroismo del popolo ebraico ha implementato la partecipazione attiva alle operazioni di enforcement anche dei giornalisti corrispondenti di guerra, perché in questo “regime” virtuale delle false notizie è indispensabile dire e diffondere la pura verità e questo delicato compito deve essere affidato ai mezzi di informazione professionisti. Basta con le ipocrisie di facciata! Le democrazie occidentali evolute dalla cultura greco-latina e cattolico-protestante, le quali hanno praticato la rivoluzione scientifica ed ideologica dell’Illuminismo e quella economica dell’Industriale e post-Industriale devono essere filosemite. Non è possibile argomentare di una guerra “giusta” perché lo Stato di Israele ha “oppresso” un fantomatico Stato della Palestina. Nel 1948 gli assetti mondiali fuoriusciti dal secondo conflitto, quello in cui la brutalità delle SS tedesche ha compiuto la disumanità dell’olocausto, hanno istituito lo Stato d’Israele e questi patti internazionali andavano e vanno osservati. Purtroppo gli ebrei danno fastidio perché, oltre ad avere un grado di operosità ed istruzione culturale fuori dal comune e superiore alla media sono la perfetta sintesi fra capitalismo e socialismo e questo disturba molti pensatori della dittatura mascherata da economia di mercato o da riscatto del proletariato.

Il “kibutz”, luogo delle atrocità delle belve protoumane di Hamas, compiute lo scorso 7 ottobre, è una comune agricola e\o artigiana, dove tutti sono orizzontalmente divisi solo per funzioni ed è finalizzata alla produzione ed al reddito. I palestinesi sono un popolo che certamente merita rispetto per le sue rivendicazioni sociali e territoriali, ma il mezzo della violenza asimmetrica e del crimine di guerra non è certamente un modo di esprimere un pensiero critico. Io non capirò mai quegli intellettuali radical che abitano la nostra comunità euroamericana e stanno giustificando Hamas, in nome di un non bene precisato gesto di reazione collettiva all’imperialismo sionista. Ma il paradosso è già stato individuato non da me, che sono l’ultimo degli ultimi pennivendoli, ma nientemeno che da Edith Bruck, la scrittrice ungherese che abita a Roma, la quale si è meravigliata, per non aggiungere trasecolata, delle manifestazioni filoisraeliane organizzate dalle “destre”, per imprestare un termine di Fausto Bertinotti. Venerdì 17 novembre 2023, l’Italia nel ventre di quella grassa ed opulenta democrazia che proprio Israele ha contribuito a fondare ottanta anni or sono, avendo l’Italia l’8 settembre 1943 deciso, al costo della povertà assoluta, di allearsi con le democrazie illuminate dell’Ovest Atlantico, celebra uno sciopero generale, per ricordare un dato storico che ho citato nelle mie precedenti pubblicazioni. Il sindacato della triplice confederale si è reso conto che, dopo trenta anni di “yes Sir” alle relazioni industriali squilibrate fra uno Stato sempre più famelico di tasse ed una industria sempre più avida di sgravi fiscali, non è stato in grado di spiegare ai propri iscritti che gli stipendi italiani sono i più bassi di Europa, a fronte di quelli tedeschi superiori in media del 120/140%. Ma l’alternativa è tacere su questo, costringere tutto il Paese ad abdicare per 24 h ad ogni tipo di mobilità, perché lo sciopero si deve fare, anche se ci si dimentica che questo diritto in Italia si venera, osserva e pratica grazie all’adesione alla N.A.T.O., di cui Israele è valida partner.

In questo contesto, i giornalisti hanno il ruolo storico essenziale di documentare la storia, perché nell’era di internet, degli influencers e dei social media si corre il rischio che la frase scritta virtualmente si confonda con la verità oggettiva. Quindi se un Ufficiale dell’Esercito israeliano denuncia gli atti di perfidia dei palestinesi armati, che non voglio nemmeno definire militari o soldati, nell’adottare gli ospedali come scudi di protezione non deve essere creduto. La buona fede è quella dei palestinesi indiscriminatamente, anche se tengono da oltre 40 giorni ostaggi dei neonati, se legano i vecchi, le donne, i bambini, hanno stuprato con modalità agghiaccianti. Io sto con Israele e voglio urlarlo con forza, perché il bullismo dei social media a volte sta imbavagliando molte persone libere e non condizionabili, le quali si limitano a parlare per il timore che alcuno possa denigrarli o attaccarli. I social media anche nella vita quotidiana hanno legittimato condotte che prima erano molto più contenute ed inibite: spesso le persone sono facili nel gettare il discredito sull’operato e sulle idee degli altri, non trovando smentite energiche o adeguatamente munite di forza distruttiva dei danni prodotti dalla falsità e dalla menzogna. Si è ingenerato un convincimento che si possa dire tutto, perché alla fine non si viene puniti, tutto sommato. Questo venticello di calunnia, di diffamazione purtroppo è imperante sulla nostra isola, che come dicevo nel mio scorso articolo, è imbottigliata in uno stallo epocale molto delicato, laddove l’economia di sussistenza turistica dovrà essere sostituita da quella di mercato globalizzata: un po’ come definire palestinesi gli isolani avvezzi a vecchie dinamiche della ricchezza stagionale estiva, restii a trasformarsi in israeliani progrediti abitanti dei “kibutz” attivi dodici mesi all’anno. È in atto uno scontro generazionale tra vecchie e nuove dinamiche sociali che sta avvelenando l’approccio che i nostri bimbi dovranno avere al futuro, che si costruisce con un tempo presente di verità e di lealtà, raggiungibile solo con il giornalismo autentico e professionale, che talvolta conduce alla morte (Siani, Pecorelli, Tabagi, Polytoskaja, Galitia).

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