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Procida? Ancora tra valvassori, valvassini e plebe

Di Michele Romano

PROCIDA – Dopo i primi quattro mesi della nuova amministrazione comunale, vissuti in modo concitato, confuso, contraddittorio, un grande merito, probabilmente in modo inconsapevole, lo ha acquisito: agendo nel bene e nel male, hanno svelato con ingenuità che la “polis micaelica”, nonostante tutti i passaggi storici, dallo stato pontificio, all’unità d’Itali, dalla monarchia al fascismo, alla democrazia del 2 giugno 1946, è rimasta ancorata alla concezione feudataria dei valvassori, dei valvassini, della plebe. Certamente hanno assunto altre configurazioni social, manager-professionisti della sanità, della scuola, dell’edilizia, dei trasporti, dell’imprenditoria del mare, dei progetti di sistema socio-economico, di formazione professionale ma l’essenza non cambia. Tale “status” antropologico della società procidana ho potuto sperimentarlo nel momento in cui, per dolce destino o per sventura (non lo saprei) sono entrato, in modo pregnante, nell’ultimo decennio, sia dentro il vissuto quotidiano politico che in quello lavorativo dell’ambito sanitario.

Infatti, dopo le significativa e, a volte, emozionanti esperienze, attraversate nel mondo del lavoro, sia nella penisola sorrentina che nelle strutture della Regione Campania, con tanti compagni di viaggio, giunto a casa, ho percepito sulla mia pelle sconcerto e disagio nell’osservare lo sguardo, l’atteggiamento di chi, da un lungo periodo, era insediato in quei luoghi di lavoro, facendoti intendere di essere un intruso in un posto che era la prosecuzione della propria abitazione. Quale asse fondante di tale concepimento ha chiuso il ciclo di lavoro ma altre costumanze di funzionari e figure apicali stanno ancora lì ad angustiare chi si sente di offrire, al meglio, il proprio servizio.

L’indicatore di ciò si mostra in tutta la sua virulenza dentro lo stato di estrema insicurezza ed incertezza in cui scorre la tutela della salute dei procidani. Ma devo pur dire che aver sperimentato tale approccio non è un caso isolato ma investe l’intera struttura organizzativa della società locale. Pertanto coloro che riusciranno a spezzare le catene dei padroni, dei predoni, dei cavalieri serventi, delle cortigiane e dei servi della plebe, potranno assumere la sostanziosa eredità e titolarità di trasformatori “insigni” del vivere sociale, economico, culturale della nostra stupenda terra. In tal senso mi allarmano alcuni tentennamenti, alcuni atteggiamenti, alcuni comportamenti nell’ambito del nuovo ceto che denotano una certa affettuosità verso l’impianto medioevale. Ecco perché  i giovani, che sono determinati e pregnanti di fuoco eracliteo, hanno davanti a loro un compito tosto, decisivo e affascinante: traghettare l’isola dal feudalesimo alla democrazia. Infine, rammentate, che il senso della politica, come ha insegnato Pietro Ingrao, è raffigurato dall’essenza di slancio vitale, di passione totalizzante e non da mercificazione e da miserabili esibizioni di gretto potere personale che tutt’ora è l’effetto pervasivo che invade gli Enti Locali, le Regioni, lo Stato Centrale.

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