LE OPINIONI

IL COMMENTO Gli elettori e il loro interesse

DI ANTIMO PUCA

Non offende questi o quegli elettori, ma il senso stesso della politica civile, la finissima frase di Berlusconi (letterale): «Ho troppa stima dell’intelligenza degli italiani per pensare che ci siano così tanti coglioni che possano votare facendo il proprio disinteresse». (Roma, assemblea degli associati di Confcommercio, 4 aprile 2006). Vediamo. Le parole, improprie, sono state intese da tutti con questo significato: «Votare contro il proprio interesse». è molto probabilmente questo ciò che voleva dire l’oratore. Infatti, disinteresse significa: 1) mancanza di interesse per qualcosa, o 2) spassionatezza, imparzialità, o 3) noncuranza di ricavare un utile, materiale o morale (Zingarelli, 1986). In quella frase intera, che parla di voto politico, il terzo è l’unico significato possibile: sono dei fessi gli elettori che non fanno il proprio interesse. Infatti, nel senso generale di quel discorso, la frase non poteva significare: sono dei fessi gli elettori che non hanno interesse per il voto. E nemmeno poteva significare: sono dei fessi gli elettori che votano in maniera spassionata, imparziale. Ora, dire «sono dei fessi gli elettori che non fanno il proprio interesse», è un pensiero che degrada la politica, ed è rivelatore di quale infimo concetto della politica ha quell’ uomo di governo, e dunque da quale concezione è guidata la sua politica, come già sapevamo.

Ma c’è un altro pensiero e un’altra pratica: «Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne (uscirne) tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia (l’egoismo)» (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1967, p. 14). Politica ed egoismo sono l’opposto l’una dell’altro. Fare il proprio particolare privato interesse, come principale e decisivo criterio politico, sotto pena di coglioneria, è la negazione della politica. La quale invece è la ricerca del bene di ciascuno con e insieme al maggior bene possibile di tutti, il classico bene comune. Senza di ciò non c’è la politica, la vita insieme, ma la guerra di tutti contro tutti, lo smembramento della società (essere soci) in bande di rivali. Un popolo privatizzato non è più in popolo. Senza popolo non c’è demo-crazia, ma al massimo la demo-cratura (dittatura elettiva). Per dirla con Benedetto XVI, «la politica è la forma suprema di carità sociale». Una sottolineatura su cui certo non si possono fare sconti. Detto questo, bisogna però non cadere in una forma di moralismo astratto. Se alla politica tocca il compito della mediazione tra interessi diversi e compositi per ottenere il massimo di Bene Comune, non bisogna scandalizzarsi che ciascuno, nel voto, esprima degli interessi. Ci mancherebbe altro! Significherebbe delegare alla politica non la composizione possibile di interessi, ma la concezione della vita. Quello tra coscienza e Legge è un rapporto complesso che regola la vita della persona all’interno della comunità e delle Istituzioni, una costante tensione talvolta sfociata in tragico conflitto, interiore e sociale.

Ma quando è giusto, se è giusto, ribellarsi alla Legge? E in nome di quali principi? Una reale e sana Democrazia è la cornice che garantisce la composizione di questo rapporto; in un contesto di tolleranza e dialogo infatti la coscienza individuale, “voce collettiva di una comunità etica ideale a cui sentiamo di appartenere”, permette la comprensione e il riconoscimento delle altre persone, mentre una Legge giusta offre il terreno Comune su cui nutrire quel clima di confronto e di crescita. Quella stessa coscienza rappresenta quindi lo sguardo vigile che l’individuo deve esercitare anche per riconoscere, denunciare e combattere le degenerazioni della Democrazia quando essa viene svuotata del suo significato e le sue Leggi piegate a un uso distorto che provoca disuguaglianze, privilegi e più o meno velate oppressioni.

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