CULTURA & SOCIETA'

Nicola Gioba: l’arte, un cantina, il suo fascino

Forme che prendono spunto dalla pietra (di tufo o granito), soggetti che sono cristiani, mitologici e ischitani: vi raccontiamo uno straordinario personaggio e le sue opere

DI ARIANNA ORLANDO

“Il meno che si possa chiedere a una scultura è che stia ferma” scriviamo citando letterariamente Salvador Dalì e accogliamo, in questo modo, con questo spirito siffatto, la suggestione delle statue che popolano la cantina di Nicola Gioba, in Via Casamattera n.25 . Esiste tra la materia e il suo scultore un rapporto uguale e contrario: in qualche modo ci si somiglia e in un altro, invece, ci si gerarchizza in dominatore e dominato. Questa pietra giace informe al pavimento, dice Nicola, io ci vedo dentro ciò che potrebbe essere e nella mia mente l’ho già scolpita. Quando traggo fuori dalla pietra la mia forma, io eseguo solo la mia immaginazione. Il lavoro è più faticoso di come lo scriveremo noi qui: si tratta di tufo o di granito quando parliamo invece verosimilmente della pietra che noi miracolosamente immaginiamo come un velo che cade dalle spalle della figura ora finalmente libera. I soggetti di Nicola sono cristiani, mitologici e ischitani. Gli appartiene il Bacco vivente che si copre, come Adamo dopo la mela, con una foglia di fico, gli appartiene la “ragazza di Cavagrado” che è un busto gentile di donna scavato dai rivoli di mille anni di forza di vento. E mentre ora dinnanzi a noi, noi lo vediamo come un capolavoro immobile, concepiamo che la stessa forza maldestra che l’ha scavata, ora è invece una carezza gentile di aria che le sposta I capelli sul lato destro del volto in una posa che non cambierà mai. La forza irruente che dirompe e che prepotentemente rompe gli argini della pietra e la plasma è la gentilissima innocenza che la ristora, che ce la mostra pacata e sazia. È di Nicola, ancora, una madre di legno che regge con forza il figlio davanti al suo viso con le braccia inerti alla fatica e con il ventre che gorgoglia di nuova vita. È suo il Cristo disceso dalla croce, il viso a forma di goccia che pensa poggiato sulla mano. Sua è la figura della propria madre, partorita dal tufo, di ritorno dalla campagna e incastonata in una giovinezza sempr-eterna. Sua l’uva nella vasca e sotto i piedi della pigiatrice.

Una sorta di Lighea abita poi la cantina di Nicola Gioba: la sirena di Tomasi da Lampedusa che bacia e ama nell’estasi dell’orgasmo il giovane uomo tratto dai suoi studi latino-greci. E un Tifeo, sotto la pietra dell’isola, simula la forza eterna e dirompente del magma e delle leggi continentali della tettonica per cui questa Ischia che è per noi la casa, per il cosmo tutto non è che una zattera in equilibrio su un mare di fuoco. Ma in questa legge della natura tanto disonesta, tanto ingiusta, tanto terribile che fu la decisione del cosmico creatore, gli antichi ci videro la punizione di un gigante, Tifeo appunto, alle cui spalle questa isola si destina come un guscio di tartaruga. E si scrolla la fatica di dosso Tifeo, nella rappresentazione di Gioba della fontana, si sgranchisce le gambe mentre una parte dell’isola, della sua isola, si sgretola e cade nell’atto terrificante di un terremoto. Il capriccio di un quasi dio è la punizione che tocca all’uomo per essere nato dentro e non sopra le cose. Ma la meraviglia di Gioba non è assolutamente questa: non l’idea, non la rappresentazione. È l’idea e la rappresentazione che, nel suo caso, si compie da autodidatta. Gioba non ha mai aperto un libro che insegnasse l’arte, non ha mai seguito un corso di scultura, di scultura nessuno gli ha mai parlato. Non ha avuto un maestro, non ha avuto nemmeno un predecessore familiare. Ha intuito nella pietra-la materia primigenia strappata dal nulla prima e dal caos dopo, la sostanza terrena per eccellenza- un’esigenza di scoprirsi e di svelarsi non solo come strumento di muratura o di creazione ma come immagine e rappresentazione. E dalla sua volontà tutto è fluito nelle mani trasformate in due cervelli viventi, e gli occhi si sono mutati a loro volta in leggii da cui provare a trarre fuori la parola, o per meglio dire in questo caso: la forma. E tutto è venuto da sé; per esigenza naturale, per insufficienza di parola, per nostalgia vivente, per forza muscolare. E il legame con la pietra, specie con quella tufica, è così primitivo e atavico, così ereditato nell’uomo e in quest’uomo che ce lo riconsegna sotto la forma di capolavoro, è il sintomo di una parentela biologica con l’isola: la terra da cui la pietra proviene è esattamente la stessa da cui l’artista è nato. È così che Nicola Gioba e le sue statue possiedono vincoli indissolubili che vanno oltre la comprensione del mondo attuale per cui gli oggetti sono cose: le statue non sono cose, ma creature di pietra che portano con loro l’idea e l’anima di chi li crea. È così che una specie di cordone ombelicale e di flusso di sangue si trasmette dall’uomo alla pietra, da Nicola Gioba e la sua pietra e la pietra diventa viva. È un mistero ciò che avvenga tra il creato e il suo creatore, ma è allo stesso tempo questo inspiegabile enigma a rendere l’arte degna di essere vissuta. Ancora di più quando, come nel caso di ora, l’artista Nicola condivide con le sue creature la casa e i natali.

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