CRONACA

Pascarella: «La missione oggi passa attraverso la testimonianza personale»

L’interessante intervista rilasciata dal vescovo di Ischia e Pozzuoli a Città Nuova, partendo dall’analisi di due diocesi così differenti eppure da rendere omogenee

S.E. Mons. Gennaro Pascarella, vescovo emerito di Pozzuoli e Ischia, ha concesso a Città Nuova un’intervista nella quale ha parlato della comunità della diocesi di Pozzuoli, che ha guidato dal 2 settembre 2005, dopo essere stato nominato vescovo coadiutore il 10 gennaio 2004. Sacerdote dal 14 settembre 1974 per la diocesi di Acerra, è stato nominato vescovo di Ariano Irpino-Lacedonia il 14 novembre 1998 e ordinato il 9 gennaio 1999. Il Santo Padre lo ha nominato vescovo della diocesi di Ischia il 22 maggio 2021, unendo in persona episcopi (nella persona del vescovo, ndr) le diocesi di Pozzuoli e di Ischia.

La diocesi di Pozzuoli include territori e comunità molto differenti tra loro. È stato difficile guidare una diocesi così eterogenea? Cosa è cambiato negli ultimi anni?
La diocesi di Pozzuoli comprende quattro quartieri della città di Napoli (Pianura – Soccavo – Fuorigrotta – Bagnoli), i comuni di Pozzuoli, Quarto, Bacoli e Monte di Procida. È una realtà eterogenea, con problematiche differenziate. Alcune difficoltà sono comuni, come quelle di trovare lavoro, di una strisciante forma di familismo, di sacche di dispersione scolastiche, di crescente debolezza della famiglia. In alcune zone la camorra ha ancora molti addentellati. C’è tanta gente che ancora nel silenzio non permette che il tessuto sociale si sfilacci. È la foresta che cresce, anche se ci sono alberi che cadono. La realtà religiosa ha caratterizzazioni diverse: a Napoli, in particolare a Fuorigrotta, c’è una secolarizzazione avanzata; nella zona flegrea, in particolare Bacoli e Monte di Procida, tengono ancora alcune tradizioni religiose. Ho iniziato la mia esperienza come vescovo nella diocesi di Ariano Irpino – Lacedonia, diocesi montana, con tante tradizioni religiose popolari. È lì che ho imparato a fare il vescovo!

Il passaggio alla diocesi di Pozzuoli è stato venire a contatto con una realtà socio-religiosa completamente diversa. Nella diocesi, quando sono arrivato, si stava preparando l’VIII Sinodo Diocesano, che ho avuto, poi, la gioia di celebrare. Questo mi ha aiutato subito a mettermi in contatto con le persone, ad ascoltare, a prendere consapevolezza della realtà in cui mi stavo inserendo con le sue ricchezze e povertà. Il programma del mio episcopato a Pozzuoli è quello approvato dall’assemblea sinodale. L’esperienza del Sinodo Diocesano ha caratterizzato il mio episcopato a Pozzuoli. Dopo 10 anni dalla celebrazione del Sinodo abbiamo sentito la necessità di un aggiornamento, anche del documento programmatico, prodotto dal Sinodo. Abbiamo ripreso un cammino sinodale, coinvolgendo soprattutto i consigli di partecipazione diocesani e parrocchiali; ma mentre presentavamo il nuovo documento è scoppiata la pandemia del Covid, che ha creato un punto di cesura. Nel post-Covid abbiamo preso più consapevolezza di quello che dice papa Francesco: stiamo vivendo non un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca! Le presenze in chiesa e gli operatori pastorali si sono assottigliati; si è sentito di più il bisogno di ritornare all’ essenziale. La convocazione di una sorta di Sinodo universale, che coinvolgesse tutti, ci ha rimessi in moto, soprattutto in ascolto di tutti, non trascurando i carcerati e le carcerate. ln cammino continuo, sperando di essere capaci di aprirci al nuovo a cui lo Spirito ci apre!

Quali sono stati i momenti più difficili e quelli più belli nel corso del suo ministero episcopale a Pozzuoli?
I momenti più difficili sono stati certamente quelli che hanno coinvolto le persone del territorio in eventi drammatici, provocati dalle organizzazioni criminali e da incidenti. Come dimenticare la processione in un rione napoletano, il giorno dopo che avevano ammazzato due persone? Con la preghiera dicemmo il nostro dolore e il nostro no deciso alla violenza e alla sopraffazione. Come testimoniare a tanti giovani presenti alle esequie di un loro amico ammazzato per sbaglio la nostra vicinanza e la certezza che il male si vince solo con il bene? Davanti ai miei occhi ho ancora una fila di bare di persone decedute dopo un drammatico incidente (la caduta di un autobus in una scarpata sulla strada verso Avellino), i volti stravolti dei loro parenti, le grida e le lacrime. Cosa dire nell’omelia? Ho solo potuto fare miei i loro gridi ed unirli a quello di Gesù sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» ed essere concretamente vicino a loro attraverso la Caritas Diocesana. Tra i momenti più belli c’è certamente la celebrazione del Sinodo Diocesano; ma è stata la Visita pastorale, che è durata vari anni, ciò che mi ha arricchito di più, mettendomi a contatto diretto con le persone, facendomi sentire, per dirla con papa Francesco, “l’odore delle pecore”. Ho incontrato bambini, ragazzi e giovani, soprattutto nelle scuole, ascoltando le loro domande, spesso provocatorie e immediate; ho visitato i luoghi di sofferenza e ho incontrato gli anziani. Sono stato accolto anche dalle imprese del territorio. Ho potuto conoscere in diretta le gioie e le speranze delle persone, ma anche le loro angosce, i loro problemi, i loro drammi. La sofferenza più grande era non poter dare risposte concrete ai loro problemi, a volte veramente grandi! Dopo aver cercato con la Caritas soluzioni possibili, potevo solo portarli con me nella preghiera!

Si è conclusa la prima fase del cammino sinodale, quella dell’ascolto. Quali sono le potenzialità e le criticità emerse?
Come dicevo prima, ci siamo rimessi in cammino. Il passato sono le nostre radici, il futuro è la nostra destinazione, ma è nell’oggi che lo prepariamo. È facile essere schiacciati dal momento fugace; più difficile è essere radicati nell’oggi, guardando la realtà per scoprire nuovi orizzonti! È stato più facile far emergere le criticità sia a livello civile che ecclesiale che scoprire le potenzialità. Qualcuno si è fermato alla lamentela; ma la maggioranza ha cercato di non fermarsi alle difficoltà. C’è esigenza di legalità, ma è importante creare una cultura che la sostenga. I politici non sempre sono all’altezza del loro compito, ma deve crescere la cittadinanza attiva. Fa fatica a far diventare normalità la corresponsabilità di tutti i membri della Chiesa, riscoprendo la pari dignità e la missione, fondate sul Battesimo.

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Le diocesi di Pozzuoli ed Ischia sono state unite in persona episcopi. Quali prospettive e priorità pastorali si aprono per le due realtà ecclesiali nei prossimi anni?
Il compito fondamentale che è affidato ad un vescovo che ha un’altra diocesi, legata in persona episcopi, è quello di essere strumento di unità nel rispetto della storia, delle tradizioni, della cultura della nuova diocesi affidatagli. Non si tratta di annessione, ma di unità nella diversità. Non è facile questo passaggio, esige gradualità, pazienza, avere una visione, aprirsi al nuovo. Insieme, come diocesi, dobbiamo fare innanzitutto una conversione mentale: prendere consapevolezza e trarne le conseguenze di quello che papa Francesco ci sta ripetendo: «Non siamo più in un’epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento di epoca». Imparare a camminare insieme, coltivando una “spiritualità di comunione”, che è l’anima della sinodalità. L’annuncio e la missione oggi passano attraverso una testimonianza personale, ma soprattutto comunitaria. È quanto mai attuale oggi quello che dice Gesù: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Nel rispetto delle diversità – l’unità evangelica non è mai omologazione e uniformità! – siamo chiamati a costruire concretamente l’unità. Non ha chiesto questo Gesù al Padre durante l’ultima cena: «Che siano uno… affinché il mondo creda» (Gv 17,20-21)?

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Molti ragazzi si allontanano dalla pratica religiosa, non partecipano più alla messa. Cosa suggerirebbe alle famiglie per riavvicinarli?
Il problema non sono tanto i giovani e i ragazzi, ma noi adulti! Che visione del mondo, della società, di Chiesa noi stiamo dando loro? Quali valori per cui vale la pena spendere la vita stiamo trasmettendo loro con autenticità e franchezza? Ascoltiamo veramente i giovani o di fatto by-passiamo le loro richieste, le loro domande e le loro contestazioni? Ogni persona ha nel suo DNA – è questa la visione cristiana – la chiamata ad amare, a donarsi e accogliere l’altro come dono. E questo è fonte di gioia, come recita un detto di Gesù: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20 35). Quando c’è stata la drammatica alluvione ad Ischia sono stati tantissimi i giovani che si sono donati con entusiasmo. Il desiderio di spendersi per gli altri c’è in loro, bisogna farlo venire fuori. Esso è bloccato da una cultura dominante fortemente individualista, fino ad estremizzarsi come cultura dell’indifferenza e dello scarto. E non siamo noi adulti ad avere in mano le leve della cultura? Che dire della mancanza della figura paterna e materna in tante famiglie? Dal cammino sinodale è venuto fuori una indicazione chiara: ascoltiamo di più i giovani, non ci sia solo un’attenzione per loro, ma è necessario camminare con loro, facendoli sentire corresponsabili.

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