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16 anni di anoressia, la lotta di una madre per salvare la figlia

di Isabella Puca

Ischia – «Il malato di disturbi alimentari è come un insetto che si trova imprigionato in una ragnatela. Mia figlia ha toccato il fondo, non ha rischiato di morire, è proprio morta, più volte. Definire inferno ciò che abbiamo passato è poco. L’anoressia, così come la bulimia, è una malattia invisibile». É la mamma di Gilda a parlare. Il nome è inventato per una storia fin troppo vera che decidiamo di raccontarvi oggi che in tutta Italia si celebra la giornata del fiocchetto lilla contro i disturbi alimentari. Nessuna intenzione di spaventare il lettore, ma quello di informare per capire che il problema non è solo delle modelle viste in televisione, ma appartiene, purtroppo, anche alla nostra isola. Gilda ora pesa 46 kg per 1 metro e 70 di altezza e il suo disturbo alimentare dura da circa 16 anni. Accanto a lei, in ogni fase della sua malattia, c’è la sua mamma, una donna forte come una roccia che, tra una sigaretta e l’altra, ha deciso di raccontare la loro battaglia quotidiana contro una malattia che proprio non le lascia in pace. «Il disturbo alimentare di mia figlia – ci racconta – si è manifestato quando andava in seconda media. Aveva 12 – 13 anni. Due o tre volte a settimana restava a scuola anche il pomeriggio, mi diceva che a pranzo aveva mangiato il panino e io mi fidavo, ovviamente, forse un po’ troppo. Stessa cosa durante l’estate, quando mi diceva che mangiava il panino in spiaggia o che cenava con gli amici. Piano piano, però mi rendevo conto che dimagriva e allora è arrivato l’inferno. Quando arrivano i sintomi, significa che ormai la malattia già c’è. Informandomi, però, una pediatra raccontava di alcuni comportamenti che si hanno nell’infanzia che possono essere dei campanelli d’allarme e manifestare l’arrivo della malattia. In effetti, lei li aveva. Doveva mangiare 7 poppate, ne mangiava 6, ma cresceva, stava bene. Quando ha iniziato a mangiare, preferiva solo alcune cose e per farla contenta l’assecondavamo. Se cercavi di farla alimentare con altre cose, le veniva da rimettere. Da che non voleva mangiare troppo, è passata a non voler mangiare proprio. Non voglio spaventare, ma quando arriva, è la fine». Il disturbo alimentare, spesso, non si vede, ma chi ne soffre si allontana dagli altri, tende a isolarsi e resta solo con la malattia. Gilda, ad esempio, non l’ ha mai ostentato. Alternava fasi di anoressia e bulimia e indossava jeans larghi o tute maschili di qualche taglia più grande della sua. Quando arriva il disturbo alimentare, ad ammalarsi è l’intera famiglia. «Per loro non è più vita, sono condizionati e per non mangiare farebbero di tutto. Io avevo una paura costante perché poi inizi ad informarti, inizi a vedere che può arrivare un arresto cardiaco. Quando usciva, non sapevo se sarebbe tornata. Aspetti che si fa sera sperando che l’ indomani sia un giorno almeno uguale a quello precedente e invece è sempre peggio. Iniziai a farle vedere il problema, ma non ne voleva sapere niente. Rifiutava ogni cura. Sono 16 anni che combattiamo e non è ancora finita. Si è sempre rifiutata di andare da qualche parte, io invece sono stata da uno psicologo per 3 anni, ma la dottoressa mi disse che era un cane che si mordeva la coda, si girava in tondo senza risolvere il problema». Qui a Ischia, allora come adesso, non esistono strutture specializzate e spesso né i medici di base, né la struttura ospedaliera sono preparati a individuare a ad accogliere casi come quello di Gilda. «Quando chiamammo al Policlinico, ci dissero che era inutile che ci provassimo. Ci dissero che erano molto lontani e che lei, psicologicamente, non avrebbe avuto la forza di andare. Fisicamente non ce l’avrebbe fatta. Per stare lì alle 9:00 avrebbe dovuto alzarsi alle 5:00 e prendere un aliscafo e poi ancora un altro mezzo per arrivare in ospedale. Ci dissero di cercare a Ischia, ma qui sull’isola non c’era nulla, solo tanto, troppo pregiudizio. Andammo all’Asl, ma niente». Il primo ricovero di Gilda avvenne quando lei aveva 19 anni, la portarono a Todi dove però, essendo una ragazza problematica, la rifiutarono. Ad accettarla fu un centro di Firenze, ma l’intervento durava solo 3 mesi. «Lì era un manicomio. Non potevano saltare un gradino che dicevano che era iperattività. Stavano in un androne che era minuscolo, si sedevano sui gradini per chiacchierare. Erano ragazzi di 20 anni e invece di stare a contatto con la realtà della vita, li tenevano rinchiusi. Il ricovero sarebbe dovuto durare 3 mesi, una barzelletta. A casa la vita era un’altra, non era un carcere e non potevo chiudere il bagno 2 ore come facevano loro che trovavano i metodi per vomitare comunque; se non andava bene, li riempivano di psicofarmaci». Fu Gilda a chiedere alla mamma di tornare a Ischia, mancava solo un mese alla fine di quel ricovero forzato. Espresse il desiderio di andare a fare la spesa, di cucinare, di camminare con i suoi piedi, cosa che le cure avrebbero dovuto insegnarle a fare. «Cercavo d’incoraggiarla a resistere, ma si fece fare un piercing da una delle ragazze e la sbatterono fuori . Voleva reagire e, tornata a Ischia, passarono altri anni sguazzando in questo inferno. A giugno 2013 una persona la vide in strada, le disse che la trovava meglio, che aveva messo su i “muscoletti”. Da allora la disperazione totale. Iniziò a non uscire più di casa e decise di alimentarsi solo con il ghiaccio. Lo ha fatto per tre mesi. Noi non potevamo fare niente. Si alimentava cucinando per me e guardando programmi di cucina, ma ingurgitava solo ghiaccio e la premuta di limone. L’ ultimo mese aveva conati di vomito». É allora che Gilda ha toccato il fondo, ormai irriconoscibile, non camminava più bene, era debole e la mamma dormiva accanto a lei; voleva accertarsi che respirasse ancora. «Volevamo che si ricoverasse, ma non c’era verso. Una sua amica cercò di convincerla, ma lei continuava a rimandare all’indomani. Quando capì che forse un domani per lei non ci sarebbe stato, riuscimmo a convincerla. Pregavo che si sentisse male per ricoverarla, ma mai avrei voluto vederla quasi morire. Iniziò ad avere le allucinazioni, non ci vedeva più, aveva i crampi alle gambe e farfugliava. Era come aver lasciato i fili di una marionetta. 15 giorni dopo ebbe un arresto respiratorio, andò in rianimazione e ricordo che un dottore mi disse “l’ho intubata prima che morisse”. Dopo 20 giorni le fecero una tracheostomia e lì un altro inferno. La guardavo, in quel letto d’ospedale. Era gonfia come un mostro. Mi dicevo “no, non è mia figlia”». A ottobre, Gilda fu trasferita al Monaldi e a novembre riuscì a superare un altro intervento chirurgico. Dopo poco fu trasferita a Telese in un centro di riabilitazione motoria dove è rimasta per 13 mesi. Un anno e un mese, per ritornare in vita. «Lì a Telese ho fatto di tutto, la lavavo, la cambiavo e qualche volta le indossavo i jeans e la truccavo, perché quella era la vita. Per 15 mesi non ha mai parlato, per lei era una cosa tremenda e a gennaio, a Padova, ha avuto un intervento alla trachea. Rischiava di restare muta e invece andò bene. Quel giorno mi disse che era il più bel giorno della sua vita. La sera, ebbe due arresti cardiaci». Ora, dopo due anni, Gilda cammina, ma non è indipendente al 100%. Non vede bene e ha molta difficoltà con la memoria e la malattia, anche se non si vede, è ancora dentro il suo corpo. Ora trascorre molto del suo tempo in palestra, mentre prima si chiudeva in casa, «quando era in fase bulimica non voleva farsi vedere, a casa non poteva venire nessuno. Per prendere un caffè con lei bisognava prendere un appuntamento così, per una settimana, non mangiava, ma il giorno dell’ appuntamento non riusciva a venire perché non aveva le forze. Quando chiudeva la porta del bagno non sapevi quando l’avrebbe riaperta». Il racconto della malattia di Gilda è un’altra testimonianza di come questa malattia si manifesti in forme diverse a seconda del caso e di come l’amore di una mamma può tenere in vita una figlia nonostante la stanchezza. «Se un bambino infila le dita nella presa, dopo che si fa male non ci va più. Mia figlia ha passato di tutto, non si è mai lamentata, una sofferenza inaudita. Pensi che dopo aver toccato il fondo ci possa essere solo una risalita, invece no, siamo di nuovo allo stesso punto. L’anoressia, così come la bulimia, non si vedono, i pregiudizi della gente, quelli sì. Viviamo in una società dove la perfezione sembra essere l’unica aspirazione di giovani e meno giovani lasciando così campo libero ai disturbi del comportamento alimentare. Per Artemisia, che non è più con noi, ma soprattutto per Gilda, per la sua mamma e per tutti quelli convivono ancora con questo problema  è ora di abbandonare il pregiudizio  e  i falsi valori, di accettarsi e aiutare l’intera società a essere più solidale

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